Alle origini del gender, il fil rouge che ci lega al passato
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Nel 2015, alcuni studenti della Columbia University pubblicarono un editoriale in cui proponevano ai docenti di inserire un trigger warning – un avviso che segnala la presenza di contenuti sensibili – ne Le metamorfosi di Ovidio, uno dei poemi più celebri della mitologia classica, chiedendo che gli episodi di violenza e stupro descritti venissero inquadrati e analizzati come tali.
Silvia Giorcelli è docente del corso di Storia delle donne romane del Dipartimento di Studi storici dell’Università di Torino e ha recentemente tenuto la lezione d’apertura del corso La violenza maschile contro le donne: dal riconoscimento alla risposta operativa, il primo insegnamento specifico dedicato al tema della violenza di genere, aperto a ogni studente dell’Ateneo, giunto alla sua seconda edizione.
Abbiamo parlato con lei delle origini della società patriarcale nel mondo classico, per indagare le radici di un fenomeno che ha permeato profondamente la nostra cultura e per capire come e perché vadano letti oggi i classici del passato.
Quando si parla delle radici del pensiero classico, si pensa in primis a Platone e Aristotele, fondatori delle principali scuole filosofiche ateniesi, luoghi in cui sono stati trattati tutti i campi del sapere dell'epoca. Qual è il loro pensiero sulla donna e sul suo ruolo nella società?
È soprattutto nel mondo greco che viene elaborato un pensiero organico e articolato sulle caratteristiche dei due sessi, naturalmente in un sistema che metteva gli uomini in cima alla gerarchia dei valori.
È proprio ad Atene, e in seguito a Roma, che si codifica un’inferiorità ontologica e strutturale delle donne e si assiste a un primo mancato incontro tra i due sessi.
Platone nel Timèo racconta che la prima generazione di donne nasce dalla metamorfosi di un ceppo primordiale di esseri sessuati al maschile – andres, gli uomini –, che avevano dei difetti: le donne sarebbero quindi esseri mutanti, nati da questa trasformazione.
Platone in realtà assume posizioni che per l'epoca possono essere considerate aperte, concedendo che le donne possano essere intelligenti e, se accuratamente educate, anche in grado di contribuire alla vita della comunità.
È nel mondo greco che si assiste a un primo mancato incontro tra i due sessi
Per Aristotele, invece, nella relazione maschio-femmina, uno è superiore, l'altro inferiore. Agli uomini è destinato il potere, mentre le donne sono esseri imperfetti, senza possibilità di riscatto, a cui la natura ha assegnato solamente le funzioni di procreare e di occuparsi della casa. Una subordinazione che si rispecchia anche nell'ambito riproduttivo: è il maschio a imprimere la forma, il movimento e l'anima, mentre la donna fornisce una sorta di materia inerte da plasmare, paragonabile alla cera.
Quando nasce la società patriarcale?
Una datazione storica della nascita del patriarcato è molto difficile da fare, anche a causa della scarsità delle fonti, ma sicuramente è necessario risalire molto indietro nel tempo, fino alle società protostoriche e preistoriche.
Sappiamo che è con i greci che l’idea dell’esistenza di una gerarchia naturale dei sessi viene organizzata in un sistema di valori e di norme ed è con i testi antichi degli ellenici che tali valori vengono trasmessi alle civiltà successive, alimentando la cultura fino ai nostri giorni. Ci sono culture con sistemi valoriali diversi, dove il patriarcato non ha attecchito, ma noi siamo eredi della cultura classica e il processo per iniziare a smontare questo impianto è iniziato solo in tempi molto recenti.
Nella sua lezione racconta come la storia dell'antica Roma sia segnata da una sistematica violenza sulle donne. Qual era il ruolo femminile nella società romana?
La vita della donna romana è stata studiata sotto tutti i punti di vista: diritto, idea di famiglia, matrimonio, educazione ricevuta, educazione impartita ai figli, dimensione quotidiana, sessualità, maternità.
La violenza era un'esperienza concreta nella vita di tutte le donne dell'antica Roma
Per molto tempo abbiamo conosciuto soprattutto la situazione delle donne di rango, perché sono quelle di cui le fonti ci parlano, ma dagli anni ‘80 del secolo scorso, grazie a studiose come Eva Cantarella, il quadro dell’indagine si è allargato: non più solo auguste o senatrici, ma anche lavoratrici e prostitute.
I risultati di questi studi hanno reso esplicito come la violenza fosse esperienza concreta nella vita delle donne romane, di tutte. Si pensi ad esempio alle donne "esposte”: erano soprattutto le bambine a non essere accolte e lasciate in mezzo alla strada, finendo per alimentare il mercato della schiavitù e della prostituzione.
Non solo i mariti erano imposti, ma anche i divorzi. Soprattutto se appartenenti alle classi più elevate, le donne venivano sposate e costrette al divorzio per essere risposate in maniera migliore, al fine di costruire relazioni con famiglie più importanti.
Mariti e padri avevano il controllo totale delle donne e dei loro corpi. Potevano sposarle, ripudiarle, condannarle e i processi erano praticamente sempre privati, si svolgevano sommariamente in casa ed era il Pater familias a decidere la pena.
Esiste qualche voce dissonante, fuori dal coro?
Purtroppo non abbiamo la voce delle donne, in quanto tutte le nostre fonti – la letteratura, la storiografia, gli epigrammi – sono scritte dagli uomini e riflettono il punto di vista maschile, che è appunto patriarcale.
Esistevano forme di resistenza femminile allo squilibrio tra i sessi?
Un primo momento di cambiamento può essere collocato verso la fine della Repubblica, quando le donne cominciarono ad avere una certa autonomia economica: con gli uomini impegnati in guerra o comunque lontani, le donne si trovarono a gestire i patrimoni.
Sono, ad esempio, abbastanza ricche da poter operare delle forme di euergesia, cioè di beneficenza alla comunità, diventando protagoniste più consapevoli della vita politica della città.
Questo non significa che abbiano acquisito una libertà pari a quella degli uomini: le donne non avevano diritti politici e non ne avranno mai nell'età antica, nemmeno le mogli degli imperatori. Non potranno mai votare, né essere votate, né fare attività politica in prima persona.
Le società antiche avevano leggi specifiche per prevenire o punire la violenza di genere?
La vita sociale e culturale del mondo romano è raccontata in migliaia di documenti, ma praticamente non ci sono testimonianze di episodi narrati e inquadrati come violenza, semplicemente perché non erano rubricati come tale.
Abbiamo solo due epigrafi che ricordano espressamente dei femminicidi: una proveniente da Ostia, relativa a una donna affogata nel Tevere dal marito, l’altra, rinvenuta a Lione, sull’uccisione di una moglie da parte di un marito violento.
Lei sostiene che i Greci abbiano elaborato per primi il concetto di gender. Ci può spiegare meglio questa teoria?
Non dobbiamo correre il rischio di trasferire in toto la sensibilità contemporanea a episodi antichi, perchè il sistema di pensiero era completamente diverso dal nostro, basti pensare che esisteva la schiavitù.
Quello che però è moderno, e che si avvicina al concetto attuale di genere, è che per i greci la mascolinità non era soltanto un dato biologico, ma fenomenologico, uno status, un modo di essere.
Per Platone essere un maschio va al di là della dimensione anatomica, è anche un'attitudine; diventare uomini è un percorso: attraverso lo studio e la dedizione si acquisiscono le virtù, la virilità, la capacità militare, il coraggio.
Le femmine sono coloro che non hanno le virtù degli uomini, sono la diluizione insidiosa del maschio, sono ciò che un uomo non dovrebbe essere.
È quindi necessario fare un processo agli autori classici, rileggendo i loro testi con un approccio più critico? Pensiamo ad esempio al fenomeno della cancel culture, che tocca ambiti trasversali, come ad esempio quelli del colonialismo e del razzismo.
Quello della cancel culture è un tema molto attuale, soprattutto in contesti americani e anglosassoni, ma che non può essere risolto evitando di leggere tutto ciò che è del passato.
Recuperare il fil rouge che ci lega al passato, per riannodarlo se è utile o per comprendere le ragioni per le quali è bene che si sia spezzato
Da studiose di storia romana ci imbattiamo spesso in autori fortemente misogini – si pensi ad esempio alla satira sesta contro le donne di Giovenale – ma più che selezionare i classici alla luce della nostra sensibilità, o peggio demolirli, a me piace usarli tutti, non solo perché non ha senso demonizzare i personaggi mitici e storici che riempiono le pagine più belle della letteratura antica, ma anche per comprendere gli sviluppi tossici che da lì provengono.
Bisogna recuperare nei classici quel fil rouge che ci lega al passato o ci separa irrimediabilmente da esso, per riannodarlo se è utile o per comprendere le ragioni per le quali è bene che questo filo si sia spezzato.
E anche per sottolineare il lavoro di tutte le donne consapevoli, studiose e militanti di ogni epoca, che hanno contribuito a cambiare le regole del gioco e a rompere quelle catene che ci legavano, e in parte ancora ci legano, alla cultura dei padri.