Artemisia, storia “maledetta” di una madre egizia
Il culto della morte è presente in tutte le civiltà, ma in quella egizia assunse per molti aspetti un significato unico e totalizzante. Ciò non vuol dire che gli Egizi non amassero la vita e le sue gioie (la letteratura erotica e satirica superstite ne è una chiara conferma). Anzi, proprio perché l’amavano, concepivano la morte non come la fine di tutto, ma come passaggio a un’altra vita. Il rito dell’imbalsamazione consentiva innanzitutto di non perdere le proprie fattezze esteriori. Ma nel sarcofago il defunto portava con sé quanto di più prezioso aveva posseduto in vita. In tal modo l’anima era pronta per affrontare il lungo viaggio verso l’oltretomba (la Duat). Accompagnata da Anubis, essa avrebbe così raggiunto il corteo divino capeggiato da Osiride, per essere giudicata degna o meno di continuare a vivere tra i beati.
A questa credenza deve la sua genesi un antichissimo testo funerario egizio, il Libro per uscire alla luce del giorno, meglio noto come Libro dei morti, secondo la denominazione che il grande egittologo Karl Richard Lepsius gli diede nel 1842 nella sua edizione di quello di Iuefankh: un esteso ed affascinate papiro geroglifico conservato al Museo Egizio di Torino (cat. 1791). Non esiste una versione unitaria del contenuto del Libro dei morti, inteso come genere letterario. Composto di formule magico-religiose e illustrazioni, fu in uso, ininterrottamente, dall’inizio del Nuovo Regno (intorno alla metà circa del XVI secolo a.C.) fino all’ultima fase dell’Egitto tolemaico e poi romano.
Ma ai riti funebri egizi non è legato soltanto questo tipo di testi. Ve n’è uno, in particolare, che parla sì della morte, sebbene in maniera indiretta, ma ne arricchisce gli inquietanti significati di motivi profondamente femminili e materni. È la cosiddetta Maledizione di Artemisia, uno dei pezzi più singolari della ricchissima collezione papirologica di Vienna (PVindob. inv. G 1 = UPZ I 1). Datato alla fine del IV secolo a.C, esso è uno dei più antichi documenti in greco su papiro a noi noti. Proviene dal Serapeo di Memphis (Saqqara), città a pochi chilometri a sud dell’odierna Il Cairo, sulla sponda occidentale del fiume Nilo, dove si era stanziata una nutrita comunità di Greci dalla Ionia, denominati per questo “Ellenomemfiti”. A tale comunità apparteneva appunto la giovane Artemisia, figlia di un certo Amasis. Nome tutto greco il suo (si chiamava così la tiranna di Alicarnasso del V secolo, di cui ci parla Erodoto), e senza dubbio, per chi ama l’arte e la cultura, quel nome riecheggia figure emblematiche di fierezza e di orgoglio femminili, come la celebre pittrice Gentileschi.
Tuttavia, la vicenda che lega Artemisia al nostro papiro fa di lei piuttosto la versione storicizzata, sebbene in ambito egizio, di un mito greco ben più famoso: quello di Antigone, la figlia di Edipo e Giocasta che osò trasgredire l’editto dello zio Creonte pur di dare una degna sepoltura al cadavere dell’amato fratello Polinice. In effetti, lo slancio umano e il coraggio che accomunano Artemisia e Antigone hanno la stessa intensità drammatica. Identico il dolore, generato dal negato rispetto per un caro defunto, sebbene assai più straziante nel caso di Artemisia. Non il fratello era la vittima, ma la figlia, sangue del suo sangue. Non Creonte, la legge umana, il sopraffattore, ma addirittura suo marito, che aveva meschinamente negato alla bambina i riti funebri! È lui il bersaglio della maledizione trasmessa dal papiro. Artemisia la scrive con rabbia in nome del dio Oserapis, affinché le renda giustizia per il torto subìto e riservi a quell’uomo spietato una fine atroce, privandolo a sua volta della sepoltura da parte dei figli e della possibilità di seppellire i propri genitori. E aggiunge, epigraficamente:
Finché questa imprecazione resta qui depositata, in nessun modo il padre della bambina abbia in sorte gli dèi propizi — e chi portasse via queste parole scritte, e facesse così ingiustizia ad Artemisia, possa il dio infliggergli la punizione!
È certamente un grido di dolore, ma dalla foga di vendetta traspare anche la lucida consapevolezza della dignità femminile doppiamente violata, dentro e fuori dal grembo materno. La morte e il suo culto perdono in Artemisia ogni patina favolosa, edulcorata dai miti egizi dell’oltretomba e della redenzione eterna. Si fanno, prepotentemente, scintilla di lotta e di riscatto terreni.