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Baricco: "Scegliere filosofia? Fu un gesto estetico e di sfida"

Ospite di un incontro al Circolo dei lettori con Maurizio Ferraris, lo scrittore ci racconta il perché della sua scelta, il rapporto con il “maestro” Gianni Vattimo e quanto la filosofia abbia influenzato il suo mestiere di scrittore
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Alessandro Baricco

Era la fine degli anni Settanta quando Alessandro Baricco si iscrisse alla Facoltà di filosofia dell’Università di Torino. “Un gesto estetico, di coraggio e sfida”, lo definisce oggi, a più di quarant’anni di distanza, di cui non si è mai pentito. La sfida era innanzitutto con se stesso, perché filosofia era considerata la più difficile e “muscolare” tra le materie umanistiche, e perché era un percorso di studi non riconducibile ad alcun obiettivo utilitaristico. Scegliere l’università, d’altronde, secondo lo scrittore è il primo atto di autoaffermazione, “la prima cosa che fai per dire chi sei e come sei fatto”, e lui voleva dire al mondo che era coraggioso e, perché no, un po’ poeta.

All’università ebbe la fortuna di incontrare Gianni Vattimo, nelle affollate lezioni di estetica che si tenevano nell’Aula 35 di Palazzo Nuovo, ma anche nei seminari che il filosofo organizzava a casa sua. “In quel momento Vattimo stava avviando una torsione teorica di cui, come suoi allievi, ci faceva partecipi, invitando a Torino intellettuali e filosofi europei come Jacques Derrida a Richard Rorty, coinvolgendoci nella discussione sul pensiero debole, sull’ermeneutica, su Martin Heidegger. Avevi l’impressione di essere al posto giusto al momento giusto, di essere dove stava accadendo qualcosa che avresti raccontato tutta la vita”.

Ma il lascito di Vattimo per Baricco non è stato solo intellettuale. Ha anche a che fare con alcune “cose accessorie”, uno stile, un taglio, un modo di accostarsi alle cose che il filosofo torinese condivideva con Umberto Eco, e che Baricco descrive – oggettivandolo – in un’immagine: Vattimo in classe che spiega l’etica kantiana facendo immancabilmente cadere monete, o forse gettoni, dalla tasca. Una certa noncuranza rilassata, una leggerezza che per lo scrittore non è solo questione di forma, ma ha a che fare con la sostanza stessa delle cose: “La lezione di Vattimo è radicale: per lui le cose sono ontologicamente vaghe, leggere e ironiche. La struttura stessa della realtà ha queste caratteristiche”. 

L’idea che la verità non sia qualcosa di “roccioso” non ha mai abbandonato Baricco che, confessa, quando si accorge di non essere riuscito a pensare – e a scrivere – qualcosa che sia anche leggero, ha l’impressione di non aver colto nel segno, di non aver capito davvero quello che sta raccontando. Non è solo questione di stile, o perlomeno si tratta di uno di quei casi in cui la forma diventa sostanza. E, qui, Baricco ricorda Eco, che “più beccava il cuore delle cose più era leggero”, e l’autore americano J. D. Salinger, al cui personaggio più celebre, non a caso,  ha voluto dedicare la sua scuola per narratori, fondata nel 1994: la “Scuola Holden”, appunto.

Proprio quella leggerezza, che talvolta scivola nell’ironia, affiora nelle riflessioni che Baricco ha condiviso con il pubblico del Circolo dei lettori, il 14 febbraio, nell'incontro La filosofia: che cosa ci aspettavamo e che cosa ci ha dato? in dialogo con il filosofo di UniTo Maurizio Ferraris, che tra l'altro fu suo compagno di università. Affiora, per esempio, quando dice che chi ha una formazione filosofica è sempre un po’ “sbolinato”, perché una delle impronte che lascia lo studio di quella disciplina è che i pensieri non sono mai finiti dove la maggior parte della gente ritiene lo siano: “Noi viviamo con un terzo tempo, un extra time, perché siamo abituati a un respiro più ampio del pensiero, una continua elaborazione che ci fa sempre tornare indietro a rivedere, limare”.

L'evento al Circolo dei lettori fa parte del ciclo di incontri Le Muse Sapienti. Geografie del presente, organizzato dall'Università di Torino, nell'ambito del progetto UniVerso e dal Politecnico di Torino, nell'ambito del progetto Prometeo, in collaborazione con la Fondazione Circolo dei lettori. 

Interrogato sull’influenza della filosofia sul suo lavoro di scrittore, Baricco chiarisce che tra le due attività c’è una certa parentela, che sta nell’atto di raccontare: delle storie, da un lato, dall’altro un sistema di pensiero, che può essere declinato anche nella forma della narrazione, come hanno fatto alcuni grandi filosofi. Vattimo, certo, ma anche Cartesio, che avvia il suo Discorso sul metodo proprio come un racconto. Ma le affinità finiscono qui, Baricco è netto: “La scrittura letteraria è proprio un’altra cosa. Pensare che ora invento una storia, la strutturo, le do una musica, una distanza, una densità, e comincio a scrivere. È un altro talento e anche un altro desiderio”. La scrittura letteraria, ad esempio, ha a che fare con il corpo: Baricco la descrive scegliendo aggettivi molto concreti, definendola sporca, sudata, fisica, rumorosa. Per poi ammettere, senza nascondere un sorriso, di aver vissuto la decisione di scrivere fiction come un gesto di “sghembamento” molto forte. Ovvero, un deragliamento consapevole da un percorso più ordinario, forse più facile. Una scelta che, immaginiamo, aveva il sapore della libertà.