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Caos Francia, alle origini di una crisi di sistema

Lecornu è il quinto primo ministro dalla rielezione di Macron. Lo storico Paolo Soddu inquadra la situazione: dalla crisi dei partiti pilastri della V Repubblica all’emersione di nuove forze populiste, dai paragoni con l’Italia ai riflessi sull’Europa
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Arco di trionfo a Parigi

Lunedì 8 settembre il primo ministro francese François Bayrou è stato sfiduciato dall’Assemblea Nazionale sulla legge di bilancio. È il terzo premier che cade in un anno, e il neo-nominato Sébastien Lecornu è il quinto dalla rielezione del presidente Emmanuel Macron. Con Paolo Soddu, docente di Storia contemporanea al Dipartimento di Studi storici dell'Università di Torino, analizziamo le caratteristiche della crisi esplosa a Parigi. 

Professore, cosa sta succedendo in Francia?

In Francia si manifesta in modo più acuto la grave crisi dei sistemi politici novecenteschi, emersa per la prima volta in Italia nel 1989-1994. Finiti ai margini i partiti pilastri della Quinta Repubblica – gollisti e socialisti – sono emerse forze radicali tanto più agguerrite quanto più intenso è stato il tentativo riformatore sia sul piano della collocazione globale ed europea sia sul piano interno. La crisi, infatti, è precipitata dopo la seconda elezione di Macron, che ha visto diminuire i margini di consenso, sicché dai moderati gollisti e giscardiani si è passati all’estrema destra dei Le Pen da una parte; dalla revisione socialista al radicalismo verbale di Mélenchon dall’altra. Una concordanza degli estremi che ricorda apparentemente la fase finale della Repubblica di Weimar. Apparentemente, perché fino a ora è stata assente la risorsa principale degli antagonisti di Weimar: l’uso sistematico della violenza. E soprattutto perché la fase di passaggio, ora, è di un altro tipo e cioè dalla Repubblica del presidente alla Repubblica dei cittadini. Avviene in un periodo contrassegnato da crescenti difficoltà sistemiche, che rendono naturalmente assai più difficile – dovendo contare su minori risorse – l’azione dei democratici in contrasto alle forze populiste. 

Considerata un modello di stabilità politica, la Francia sembra diventata ingovernabile. Si sta – come scrivono giornali francesi e internazionali – italianizzando, paragonando questa situazione a quella che ha portato al governo Monti?

Mi pare una lettura di superficie, sebbene abbondi sui giornali. Nella Francia della Quinta Repubblica tutti i governi, anche quelli della cohabition, sono governi del presidente. Gli esecutivi à la Monti sono tipici di Paesi come l’Italia, quando le forze politiche, in difficoltà nell’affrontare e nel risolvere problemi divisivi e che creano scontento, si affidano a figure delle classi dirigenti esterne alla rappresentanza politica. Non a caso i governi Dini e Monti in Italia hanno affrontato uno dei problemi più aggrovigliati delle società europee contemporanee e cioè la riforma dei sistemi pensionistici, resa necessaria dai mutamenti demografici. Tali misure hanno avuto una opposizione risoluta delle variegate forze populiste che, giunte al governo, si sono però ben guardate dall’abolirle o dal modificarle. Erano infatti riforme tese a contenere la crisi di credibilità della finanza pubblica. Le riforme sono necessarie, perché imposte dalla realtà dei fatti, ma assolutamente sgradite e anche onerose. Lo sono in tempi di vacche grasse, figuriamoci in quelli di vacche magre! Se in condizione di abbondanza sono state storicamente tese a combattere le disuguaglianze, in tempi di crisi globali non si pongono questo obiettivo come prioritario. Sono però riforme, nonostante i loro limiti. Nell’affrontare la questione finiscono però col nutrire il capitale sociale dei populisti di destra e di sinistra. I populisti, una volta alla guida degli esecutivi, ossessionati dal consenso non decidono e, in un sostanziale immobilismo, nella migliore delle ipotesi navigano a vista.  

Il sistema politico istituzionale francese, basato fino a qualche anno su un’alternanza bipolare, è entrato in crisi, siamo al crepuscolo della Quinta Repubblica?    

In realtà il sistema istituzionale francese ha meno brillato di quanto in Italia si sia creduto. Il semipresidenzialismo, infatti, nell’avere un duplice elemento di legittimazione (elezione diretta del presidente della Repubblica, formazione del governo sulla base dei risultati delle elezioni legislative) crea di per sé una duplice forma di legittimazione che, nei momenti in cui non produce risultati coincidenti, finisce per indebolire il sistema. Dal 1958 al 1986 presidenza e governo sono stati uniformi, nel 1986 si sperimenta per la prima volta la cohabitation, che si è verificata con presidenze di destra e di sinistra. Le ultime elezioni politiche, conseguenti il rafforzamento dell’estrema destra nelle elezioni europee del 2024, hanno prodotto una sorta di nuova “chambre introuvable”, in cui si è prodotta di fatto un’alleanza tra destra e sinistra radicali. La realtà drammatica – lo ha dimostrato per prima l’Italia, lo rivela oggi anche la crisi di consenso di Starmer in Gran Bretagna – è che non è questo il tempo né dei riformatori né dei conservatori, ma è il tempo del caos. È legato all’emergere di autentici monopoli che non sopportano limiti, di trasformazioni economiche profonde, di discontinuità e squilibri sul piano globale impressionanti, appare il tempo del caos. Prevalgono forze politiche – negli Stati Uniti come in Europa con tendenza a estendersi ad altre aree liberaldemocratiche – che del caos si nutrono e su di esso prosperano. 

Quali sono le radici della sfiducia dei cittadini verso l'attuale classe politica francese?

Sono le stesse radici che lo scontento ha negli altri Paesi europei, indipendentemente – verrebbe da dire – dagli stessi risultati economici. Di fronte alle gigantesche trasformazioni in atto, incontrano successo messaggi che paiono confortare le inquietudini proponendo soluzioni che affondano in un passato irrimediabilmente trascorso. Promettono società rigidamente uniformi, nuovi miracoli economici, nuove possibilità dominanti, scacciando e allontanando il presente. Siamo insomma di fronte a mutamenti impressionanti, in una condizione di postdemocrazia. Gli esiti sono o una nuova età delle tirannie o un rafforzamento, al contrario, dei sistemi democratici. Questi infatti hanno una capacità di trasformazione e di evoluzione che gli altri sistemi non hanno e che si tende in genere a sottovalutare. Certo, tutto il quadro pare peggiorare. Forse le politiche nazionali, vista la condizione generale dell’Europa, sono superate dalla realtà e bisognerebbe avere il coraggio e l’intelligenza di prenderne finalmente atto. Del resto, lo sconcerto che prevale è strettamente connesso a questa condizione di sospensione tra vecchio che rivendica le sue ragioni e nuovo ancora indefinito e impercettibile. In tutta Europa. 

Macron ha nominato un nuovo premier, ma la popolarità del presidente è ai minimi storici. È diventato troppo ingombrante?

Il problema non è che Macron sia divenuto ingombrante, ma che non sia riuscito, almeno per ora  – e non poteva forse che essere così –, a mutare stabilmente il corso delle cose. Ha finito col trasferire su di sé non solo lo scontento, ma anche le frustrazioni prodotte dai mutamenti di fase più generali. Nella nuova realtà globale in definizione egli ha dovuto fare i conti con il consolidamento progressivo dell’estrema destra le cui origini sono nei pied noirs del tempo della guerra coloniale in Algeria. Nel contempo si sono sfarinate le forze portanti della Quinta Repubblica – gollisti e socialisti. In questo senso è qualcosa di simile a ciò che è avvenuto 30 anni fa in Italia e che noi, in un raro impeto savonaroliano, abbiamo scambiato per un rigurgito della corruzione. In realtà questa rivelava una verità più amara: si era alla stazione terminale della Repubblica dei partiti che si era mostrata impossibilitata a evolvere. Macron ha tentato una via di soluzione diversa rispetto a quella demiurgica prevalsa in Italia: l’ha fondata sullo “spirito repubblicano”, ma con risultati altrettanto controversi. Bisogna anche tenere conto che Macron ha prodotto una mutata collocazione della Francia nello scacchiere europeo e globale, come mostrano la difesa dei confini europei col sostegno all’Ucraina aggredita dalla Russia e l’accelerazione proposta al superamento dell’attuale stallo dell’Europa.  Del resto la condizione della Francia è del tutto magmatica e non è escluso che la presidenza di Macron risulti infine soltanto una sorta di lungo governo Ciampi cui seguirà inesorabilmente un nuovo scenario, dominato dall’estrema destra. 

Quali conseguenze di questa crisi su un’Europa già fragile?

L’Europa deve decidere che cosa vuol essere: o una somma di piccoli, nel nuovo scacchiere globale, stati nazionali che coordinano tutt’al più la politica monetaria o un nuovo soggetto politico – privo in virtù della propria esperienza storica di tentazioni imperialistiche, - capace di divenire un solido riferimento democratico, pluralista. Deve finalmente scoprire se ha coscienza di sé e ha imparato la lezione del XX secolo. Allora la boria delle nazioni europee e del Giappone ha prodotto disastri etici, politici, economici, materiali senza precedenti. Oggi pensa di potere rimmergersi nelle “grandeurs” vere e presunte del passato. Deve pensare e operare in termini strategici e con una visione che sappia tenere insieme passato presente e futuro, senza farsi scoraggiare dalle prime difficoltà. Deve fare i conti con la minaccia dell’espansionismo russo, sostenendo con tutti i mezzi l’Ucraina nella difesa dei suoi confini violati, con una politica di difesa, certo, ma di risposta all’aggressore. Così dimostrerà di essere viva e di tenere al suo futuro. Del resto, anche nell’Italia che mostra su questo piano un’impressionante trasversale debolezza, è di conforto il sondaggio di SkyTg24 sulle forme di sostegno all’Ucraina. Sono proprio le più giovani generazioni, quelle cioè che hanno il futuro davanti a sé, a cogliere l’indispensabilità di un appoggio concreto e fattivo all’Ucraina nel proteggere sé stessa. A ben vedere, anche di questa questione si nutre la crisi della Francia contemporanea e dell’incomunicabilità politica delle due estreme con il resto del Paese.