Il fine-vita, un territorio e i suoi diritti
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Il film di Pedro Almodóvar La stanza accanto, Leone d’oro alla 81a Mostra del Cinema di Venezia da qualche giorno nelle sale italiane, è stato dai più acclamato come capolavoro che con grande maestria è riuscito a portare al grande pubblico un tema duro come quello della morte volontaria, suscitando riflessioni profonde e non scontate. Altri, tuttavia, l’hanno accusato di fare “propaganda eutanasica” sull’onda di emozioni intense, di offrire “soluzioni semplicistiche e solo apparentemente umane a problemi complessi” presentando tesi precostituite. La storia è lineare: Martha (Tilda Swinton), ex cronista di guerra, è malata di cancro in fase avanzata. Quando la sua vecchia amica Ingrid (Julianne Moore), scrittrice famosa, lo viene a sapere va in ospedale a trovarla e Martha la coinvolge in una revisione della vita su temi come i disastri umani lasciati dalla guerra del Vietnam, la nascita casuale e il ruolo del sesso nella vita, il difficile rapporto con la figlia, le speranze e le delusioni a seguito di diagnosi e terapie inefficaci. L’amicizia riprende fino al punto che Martha comunica a Ingrid di avere deciso di suicidarsi prima di essere devastata dal cancro, e le chiede di stare nella stanza accanto – seguendo lo stile delle giornaliste di guerra che sempre affrontano il pericolo con qualcuno accanto. Le due si trasferiscono in una splendida villa e trascorrono gli ultimi giorni condividendo emozioni e approfondendo riflessioni sul bilancio della vita che includono anche la sorte del pianeta e la situazione politica, fino a quando Martha decide che è arrivato il momento di procedere a chiudere la vita, lasciando a Ingrid l’onere di gestire le difficoltà finali, e cioè due: spiegare alla figlia di Martha le difficoltà della madre per operare una riappacificazione postuma, e far fronte alle insinuazioni di un poliziotto classificato come “fondamentalista religioso” che vuole incriminarla per istigazione al suicidio: punto che consente un appello a sostegno della morte volontaria come diritto umano fondamentale e di leggi permissive al riguardo.
Senza entrare nel merito della controversia tra fautori e detrattori, va esplicitato un non detto che sta alla base del film: un assunto implicito che è indispensabile portare alla coscienza al fine di capire come mai oggi si fanno film come quello di Almodóvar e si discute di morte volontaria. Il punto è che i progressi della rivoluzione biomedica in corso ci offrono un grado abbastanza affidabile di previsione e di controllo sulla vita così da avere creato due nuovi territori che prima non esistevano: l’inizio-vita e il fine-vita. La gravidanza c’è sempre stata, ma fino a pochi decenni fa era un tempo misterioso su cui non era possibile far nulla, per cui era come se non ci fosse, e non c’era, una fase specifica chiamata “inizio-vita” con propri problemi peculiari e scelte dedicate.
D’altra parte, non c’era il fine-vita perché la morte era per lo più imprevista e repentina: si passava dalla vita alla morte come quando da un alto dirupo si scivola nelle profondità del mare. Oggi, invece, tra il dirupo e il mare c’è un bagnasciuga e ciò sta cambiando - e forse già ha cambiato - la situazione della morte. Tra la vita e la morte è affiorato un nuovo territorio, il fine-vita, e si tratta di sapere come gestire le nuove situazioni. Nel film è la diagnosi certa di un tumore ormai refrattario a terapie ciò che crea il bagnasciuga in cui si pone la scelta se sia meglio attendere che la natura faccia il proprio corso e la malattia porti alla morte (come si faceva quando le diagnosi non erano affidabili), oppure se sia meglio uscire dalla vita prima che la malattia devasti il corpo (come decide di fare Martha per preservare la propria integrità). Questi sono i termini della scelta, per cui quello di Martha non è neanche un caso di “suicidio medicalmente assistito”, perché l’interessata è in grado di fare tutto da sola. Anzi è così capace e forte che riesce a procurarsi da sola in modo clandestino nel dark web il farmaco letale: tema che solleva il problema di chi può permettersi questa scelta e accedere a essa.
Se il film racconta di persone altolocate che possono accedere a ospedali efficienti, vivere in case magnifiche e che sanno anche reggere il peso dell’illegalità, non va dimenticato che le malattie mortali come il cancro o altre anche peggiori colpiscono tutti, anche i non abbienti. Questa consapevolezza acuisce dunque il problema delle scelte da prendere sul fine-vita. Queste scelte presuppongono sempre il consenso imprescindibile dell’interessato, ma va chiarito che sono prese non sulla scorta di criteri soggettivi nel senso di “a me piace così, a te piace cosà, punto e basta” (come vogliono i critici), ma in base a criteri riguardanti il senso di dignità e il piano di vita che ciascun soggetto elabora nella propria esistenza. Proprio per questo, il diritto a quelle scelte va esteso a tutti, e non farlo sarebbe un grave vulnus all’eguaglianza umana. Questo passo va compiuto subito e con decisione perché quello presentato non è affatto un caso eccezionale e isolato (uno “strappo” occasionale), ma è la spia che indica come il ricorso alla morte volontaria stia diventando una nuova pratica sociale che già ora scandisce le ultime fasi della vita (il fine-vita): pratica che porterà a far sì che anche nel fine-vita capiti quel che già avviene nell’inizio-vita: come oggi contraccezione, aborto e fecondazione assistita consentono di entrare nella vita per scelta, così e a maggior ragione anche l’uscita dalla vita avverrà sempre più per scelta. È per questo che la morte volontaria (assistita e non) deve essere regolata da buone leggi.