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La medicina di genere ci dice che è ora di cambiare

Non dare peso alle unicità di ogni persona, sia in termini di salute sia in termini di malattia, vuol dire relegare le peculiarità personali all’invisibilità e, quindi, alla sofferenza
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  • Salute
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4 min
Donna in farmacia

La salute è un diritto per tutte e per tutti. L’articolo 32 della nostra Costituzione, del resto, pone accanto alla parola “salute” l’aggettivo “fondamentale”: il diritto a star bene, in sostanza, ci spetta dalla nascita. Ma si tratta, purtroppo, ancora, di pura fantasia: il diritto alla salute non arriva ovunque con la stessa forza. Esistono angoli di mondo in cui ancora igiene alimentare, sicurezza sul lavoro e ammortizzatori sociali sono traguardi irraggiungibili. 

In tale profonda radicata disuguaglianza, nonostante i vincoli posti dalla nostra Costituzione e, soprattutto, dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, un ulteriore passo nella disanima del concetto di salute può passare attraverso la definizione dell’OMS di Medicina di Genere, o, meglio, “Medicina Genere-specifica”: lo studio dell’influenza delle differenze biologiche (definite dal sesso) e socio-economiche e culturali (definite dal genere) sullo stato di salute e di malattia di ogni persona. 

Quante disuguaglianze esistono nelle regioni del mondo? Guerre, e, di conseguenza, fame, povertà e malattia, stanno disegnando l’amaro presente di interi popoli. E quante le differenze che, invece, dovrebbero essere considerate, per un approccio che tenga conto delle variabili che ci caratterizzano, differenze ripetutamente ignorate nel quotidiano, in una mera approssimazione del concetto di cura. Se la salute è un diritto umano, allora l’accesso alle cure dovrebbe essere paritario e democratico. Ebbene, questa parità, oggi, ancora, non si riscontra affatto nella scienza medica, una disciplina fin dalle origini fortemente androcentrica, che a lungo ha escluso i modelli femminili dagli studi delle malattie e dalla sperimentazione dei farmaci, relegando gli interessi per la salute femminile ai soli aspetti correlati alla riproduzione. 

La donna non è una copia più leggera dell’uomo e va studiata nella sua unicità

A porre per la prima volta al mondo la necessità di un approccio sesso e genere specifico nella cura, una cardiologa americana, Bernardine Healy, che nel 1991 pubblica un editoriale sul New England Journal of Medicine intitolato La sindrome di Yentl. Healy nell’articolo evidenzia la discriminazione che aveva nel tempo osservato: le donne erano meno sottoposte a indagini diagnostiche, interventi e terapie per patologie cardiovascolari rispetto agli uomini, perché segni e sintomi di malattia erano stati principalmente investigati negli uomini, e quindi, nelle donne, poco riconoscibili. L’articolo suscitò molto scalpore: nasce così la Medicina di Genere. 

Dal 1991 si cominciò a sottolineare dunque che lo studio della salute della donna non può e non deve essere circoscritto alle patologie esclusivamente femminili ma deve rientrare nell’ambito di tutta l’analisi medica: la donna non è una copia più leggera dell’uomo e va studiata nella sua unicità. E per l’oltre mezzo milione di persone trans* che vivono oggi in Italia? Al momento pochissime sono le informazioni disponibili sull’andamento delle più comuni malattie in chi decide di compiere la transizione. La Medicina di Genere, invece, valorizzando le differenze di tutt*, suggerisce che è davvero ora di cambiare. E qualcosa, anche se molto lentamente, sta cambiando. 

Nel 2016 in Italia il “genere” a livello normativo diventa determinante di salute. È poi di giugno 2019, il Piano per l’Applicazione e la Diffusione della Medicina di Genere in Italia, in attuazione dell’articolo 3 della legge 3 del 2018. Il Piano pone la necessità di adottare l’approccio sesso e genere specifico in diversi ambiti, dai percorsi ospedalieri alla ricerca clinica e psicosociale, dalla formazione professionale alla comunicazione con il pubblico. Tutti aspetti cruciali in ambito di sostenibilità del sistema salute, oltre che di protezione del diritto ad essa. 

Nel 1970, ne La Dialettica dei sessi, Shulamith Firestone, scrittrice, attivista femminista di origine ebraica, sostiene che la discriminazione tra i sessi è così radicata da risultare invisibile. Non dare peso alle unicità di ogni persona, sia in termini di salute sia in termini di malattia, vuol dire relegare le peculiarità personali all’invisibilità, e, quindi, alla sofferenza. E certe convinzioni, come sostiene la Firestone, sono così radicate da risultare trasparenti.

Io vorrei invece un mondo equo e inclusivo, in cui tutti e tutte contino: un mondo in cui in ogni ambito sia promossa la giustizia sociale.

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