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Le guerre dell'acqua alla prova del cambiamento climatico

Il controllo delle risorse idriche è storicamente uno strumento di potere che oggi assume un ruolo ancora più decisivo a causa delle conseguenze dei fenomeni estremi legati alla crisi ecologica. Ne parliamo con il sociologo Dario Padovan
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Articolo di Redazione
7 min
Due mani cercano in attesa di acqua da un rubinetto che gocciola appena

L’acqua è la risorsa più importante del nostro pianeta. Le risorse idriche sono da sempre legate alla presenza dell’uomo, portatrici di vita, di possibilità economiche, vie di movimento e di commercio. La loro ricchezza o la loro scarsità – e soprattutto il loro controllo – sono però anche motivo di conflitto e causa di movimenti di migrazione che si sono intensificati in modo particolare negli ultimi vent’anni con le manifestazioni tangibili, e spesso devastanti, delle conseguenze del cambiamento climatico. Già nel 1995, Ismail Serageldin, allora vicepresidente della Banca Mondiale, dichiarava: “Se le guerre del XX secolo sono state combattute per il petrolio, quelle del XXI secolo avranno come oggetto l’acqua”. Con Dario Padovan, sociologo specializzato nello studio delle trasformazioni connesse alla crisi ecologica e climatica, docente al Dipartimento di Culture, politica e società, abbiamo indagato scenari e origini di questo fenomeno a cominciare dagli elementi che ci aiutano a definire questa specifica tipologia di conflitto. 

Per una definizione

“Con guerre dell’acqua si indicano conflitti tra popolazioni, gruppi, città o stati per il controllo, l’accesso e l’uso di risorse idriche. Sono diventate più visibili di recente, in conseguenza di un'aumentata attenzione per le cause ecologiche e climatiche di diversi conflitti, come per esempio quello siriano. Tuttavia, a volte si dimentica che - sottolinea il professor Padovan - nella storia vi sono stati numerosi guerre dove l’acqua può essere considerata in tre differenti prospettive: come causa scatenante o come causa di fondo di tensioni che contribuiscono al conflitto, o ancora come posta in palio di una disputa sul controllo e l'accesso alle risorse; come arma, là dove esse sono utilizzate come strumento violento di conflitto rendendo l'acqua deliberatamente scarsa e insicura; come ‘vittima’, allorquando risorse o sistemi idrici sono manomessi, avvelenati, resi inutilizzabili, diventando così bersagli intenzionali o accidentali della violenza."

La Water Conflict Cronology elaborata dal Pacific Institute, data la prima guerra dell'acqua a circa 2500 anni fa registrando da allora circa 1920 conflitti in cui l’acqua ha avuto un ruolo cruciale. "Le aree più segnate da conflitti per l’acqua sono l’Africa occidentale (Eritrea, Somalia, Etiopia e Kenya), il Medio Oriente (Palestina, Israele, Libano, Siria, Yemen, Iraq) e l’Asia del sud (Pakistan, India, Bangladesh). Il Medio Oriente è di gran lunga l’area dove i recenti conflitti armati si sono maggiormente accaniti nel colpire le risorse idriche e utilizzare le medesime come arma. In molti dei conflitti degli ultimi trent'anni che si sono susseguiti in Iraq e Siria, per esempio, le parti in conflitto hanno usato l'acqua come arma, prendendo deliberatamente di mira le infrastrutture, cercando di prendere il controllo di parti importanti del sistema idrico come le dighe. È una priorità per le forze militari a causa del potere che ne deriva ma causa gravi conseguenze per le popolazioni dal punto di vista della salute, del cibo, dei servizi igienici, dell'istruzione e così via”, analizza Padovan.

Ci sono però anche altre forme di conflittualità meno evidenti che danno luogo a fenomeni carsici, prolungati nel tempo e con un impatto considerevole sulla vita delle popolazioni dei territori coinvolti. Si tratta dei processi che riguardano l’accaparramento delle risorse idriche, tra i quali il fenomeno globale del water grabbing. “Con questo termine si indica un processo in cui le risorse idriche vengono appropriate da vari agenti economici – di solito grandi imprese private o statali - a sostegno delle loro attività economiche ma a scapito delle comunità locali. Il water grabbing è direttamente collegato al land grabbing - da cui prende il nome – che consiste nella simmetrica acquisizione di terreni su larga scala per la produzione agricola (compresi i biocarburanti). Va da sé che per coltivare il suolo occorre l’acqua, quindi ad ogni processo di land grabbing corrisponde un analogo processo di water grabbing. Ma tra i due fenomeni non vi è perfetta sovrapposizione anche perché la natura fluida dell'acqua e la sua complessità idrogeologica, oscurano spesso il modo in cui avviene l'accaparramento dell'acqua e gli impatti ambientali e sociali che vi sono connessi.  Il water grabbing è pertanto un fenomeno difficile da cogliere nella sua sola dimensione fisica, implica relazioni di potere ineguali, confusione tra legalità e illegalità e diritti formali e informali, confini amministrativi e giurisdizionali poco chiari e processi di negoziazione frammentati.Tutti questi fattori, combinati con le potenti caratteristiche materiali, discorsive e simboliche dell'acqua, rendono il water grabbing una compiuta area di conflitto con gravi potenziali impatti sugli usi e i benefici attuali e futuri dell'acqua”, spiega il professore.

Il fattore cambiamento climatico e l'impatto sui movimenti migratori

Nonostante le guerre per l'acqua siano un fenomeno con origini lontane, è un fatto che il cambiamento climatico e le sue conseguenze - soprattutto con l’inasprirsi dei fenomeni atmosferici che hanno intensificato le loro manifestazioni più estreme - abbia acuito tensioni e dato maggiore visibilità a questi conflitti. “L'acqua e il cambiamento climatico sono inestricabilmente legati - rimarca il sociologo -  e il cambiamento climatico sta aggravando sia la scarsità che i rischi legati all'acqua (come inondazioni e siccità); l'aumento delle temperature altera infatti i modelli di precipitazione e l'intero ciclo dell'acqua incidendo direttamente sui cicli idrogeologici, esacerbando le conseguenze delle situazioni di conflitto e facendo aumentare i movimenti migratori (displacements).” Sebbene non vi sia a disposizione fino ad ora una definizione univoca per identificare le persone che si muovono a causa di radicali mutamenti ambientali, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha avanzato nel 2011 un’ampia definizione operativa, che tenta di cogliere la complessità delle problematiche in gioco: “I migranti ambientali sono persone o gruppi di persone che, principalmente a causa di cambiamenti improvvisi o progressivi dell’ambiente che influiscono negativamente sulla loro vita o sulle loro condizioni di vita, sono obbligati a lasciare le loro residenza abituali, o scelgono di farlo, sia temporaneamente sia permanentemente, spostandosi all’interno del proprio paese o all’estero”. 

I cambiamenti ambientali e le catastrofi naturali sono stati i principali motori di migrazione nella storia ma qual è lo scenario cui andiamo incontro? “Le previsioni indicano che nei prossimi decenni un numero crescente di persone sarà in movimento a causa dei sempre più frequenti e intensi fenomeni estremi che influenzano in ultima istanza la disponibilità di mezzi di sussistenza”, rileva il professore e prosegue, “secondo il Global Report on Internal Displacement del 2024, le persone che vivevano in condizioni di sfollamento interno alla fine del 2023, erano 75,9 milioni a livello globale. Questa cifra continua a crescere, poiché le persone costrette a fuggire a causa di disastri, conflitti o violenze si uniscono a quelle che vivono in condizioni di sfollamento da anni o addirittura da decenni e non hanno ancora trovato una soluzione duratura. 68,3 milioni di persone vivevano in condizioni di sfollamento interno a causa di conflitti e violenze alla fine del 2023, la cifra più alta da quando i dati sono disponibili. I disastri ambientali hanno provocato 26,4 milioni di nuovi spostamenti interni, o movimenti, in 148 Paesi e territori nel 2023. Si tratta della terza cifra più alta dell'ultimo decennio. Un terzo di essi si è verificato in Cina e in Turchia a causa di gravi eventi meteorologici e terremoti di forte intensità”. 

Si profila dunque un panorama molto complesso in cui si concretizzano varie tipologie di movimenti migratori (forzate o volontarie, temporanee o permanenti, interne e internazionali) nelle quali il fattore climatico gioco un ruolo chiave. "La migrazione è attualmente considerata una forma di adattamento alle mutevoli condizioni climatiche che può ridurre la vulnerabilità delle popolazioni. Tuttavia  - nota Padovan -  rimane un tema di ricerca e riflessione il fatto che gli spostamenti di massa siano dovuti direttamente e senza mediazioni al riscaldamento globale o siano la conseguenza di schemi complessi di causalità multipla, in cui i fattori ambientali e climatici si legano strettamente a fattori economici, sociali e politici. L'idea che le migrazioni possano dare un contributo positivo all’adattamento ai cambiamenti climatici e al benessere planetario, è in netto contrasto con le narrazioni xenofobe che descrivono i migranti come invasori che minacciano la vita pubblica e sfida le strategie dei governi di tutto il mondo volte a tenere le persone in movimento fuori dai loro confini, spesso implicitamente orientate a re-incatenarle alla terra che hanno lasciato. Nella prospettiva adattiva però la migrazione è sempre più considerata una legittima risposta ai cambiamenti climatici piuttosto che un mancato adattamento". 

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