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Le immagini dell'Olocausto alla prova della memoria

Con il filosofo Gaetano Chiurazzi abbiamo discusso del legame tra rappresentazione e costruzione della memoria dell'Olocausto e di come gli interrogativi aperti allora riverberino sulla contemporaneità
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opera al Jüdisches Museum di Berlino

Il problema della rappresentazione dell’Olocausto è stato uno dei nodi fondamentali del
pensiero del secondo Novecento. Con l'ingresso delle truppe alleate nei campi e la
realizzazione delle prime immagini che documentavano le tracce delle atrocità naziste si apre una frattura senza precedenti nella storia dell’umanità ma anche nella storia del pensiero e della cultura visuale. Ne abbiamo parlato con Gaetano Chiurazzi, docente di Filosofia teoretica ed Estetica delle arti visive al Dipartimento di Filosofia e Scienze dell'Educazione dell'Università di Torino.

Professore, quali sono le questioni che si sono aperte nel momento della liberazione dei campi di concentramento?

Da una parte c’è un problema generale, un problema persino classico della filosofia a partire almeno da Platone, e, dall’altra, un problema specifico, che riguarda questa particolare vicenda storica. Il problema generale è quello della adeguatezza delle nostre rappresentazioni, delle nostre immagini della realtà, se e in che termini esse possano davvero restituirci tale realtà ed essere pertanto vere. Qual è il criterio di questa adeguazione? Non è facile rispondere, si tratterebbe di definire il criterio stesso della verità. Può anche sembrare che l’avvento della fotografia abbia addirittura “risolto” questo problema, perché la fotografia ci restituisce un’immagine fedelissima di ciò che vediamo (quando non è anch’essa manipolata, come sperimentiamo oggi con le tecnologie digitali). Le immagini che abbiamo dei campi di concentramento, dopo l’arrivo delle truppe alleate, sono quindi qualcosa di talmente realistico – terribilmente realistico – da non poter dare adito a dubbi. Quel che queste foto ci presentano è vero, drammaticamente vero. Di tante altre tragedie della storia, di tante altre guerre (Hegel diceva crudamente che la storia è un grande mattatoio), non abbiamo foto; abbiamo certo racconti, ma una foto, si sa, spesso vale più di mille parole. 

Questo il problema generale, e il problema specifico?

Ritengo che il problema dell’Olocausto non stia tanto nella sua rappresentazione o rappresentabilità, quanto piuttosto – e questo è il problema specifico – nello iato che esso apre con il nostro pensiero, con la capacità di credere davvero a tutto questo, di chiedersi come tutto questo sia stato possibile e perché sia accaduto. Non è tanto, insomma, un problema di rappresentazione, ma della relazione che la rappresentazione ha con la nostra capacità di giudizio, per dirla in termini generali, con la nostra capacità di comprendere quel che vediamo e che la foto ci attesta essere davvero accaduto. L’irrappresentabile, in questo caso, non è tanto il fatto, ma, come pure tanta arte ha cercato di fare (da Guernica di Picasso, che mostra la brutalità della guerra, a Celan e Primo Levi), l’orrore che tale fatto suscita, l’incomprensibile che esso reca in sé.

Fondamentale diventa allora la relazione tra ciò che le immagini mostrano e quello cui invece rimandano? 

Ogni immagine, come ogni rappresentazione, è sempre parziale, nel senso che inevitabilmente offre alla vista solo un aspetto della realtà. Platone diceva che questo era uno dei peggiori difetti dell’arte, mentre chi ha a che fare con le cose reali (e non con le immagini) può vederle da tutti i lati, coglierle quindi nella loro totalità. Le immagini lasciano sempre qualcosa di non rappresentato. Ma se questo è un aspetto inevitabile, inerente alla rappresentazione in quanto tale, c’è un altro aspetto e cioè se tutto debba e possa essere mostrato: non una impossibilità di fatto, insomma, ma una impossibilità nel senso della scelta. 

La scelta apre quindi una questione etica che si lega anche alla costruzione della memoria?

La scelta apre certo una questione etica. Innanzi tutto, l’eccesso di visibilità corrisponde spesso a un eccesso di controllo: noi ci teniamo a che una parte della nostra vita sia “invisibile”, perché è una sfera che non vogliamo sia sottoposta al controllo altrui. Nessuno vorrebbe vivere in una società completamente trasparente (cosa che il film The Circle, di James Posoldt, ha mostrato con grande efficacia). Sappiamo quanto la tutela di questo diritto confligga con un altro importante diritto, quello all’informazione (e quindi anche alla verità dell’informazione). Affinché qualcosa sia creduto vero occorre che sia mostrato, che sia reso visibile, testimoniato in qualche modo. E qui si pone il problema della compatibilità o possibile conflittualità tra quel che non vorremmo mostrare e quel che si dovrebbe mostrare, tra l’esigenza di “nascondere allo sguardo” e quella di “rendere accessibile”, visibile a tutti. Non si potrebbe altrimenti avere conoscenza di tanti eventi della Storia, se non fossero rappresentati, descritti, tramandati. Per ricordare, e soprattutto per tramandare una memoria, abbiamo bisogno di un supporto materiale, e per questo le immagini o i documenti in generale sono inevitabili.

Che rischi corre la memoria con la progressiva scomparsa dei testimoni diretti? 

Ogni memoria deve fare i conti con la perdita della testimonianza diretta e con l’affidamento a supporti ipomnesici esterni e indiretti: immagini, fotografie, documenti. Questo è un processo inevitabile del tramandamento storico. E al possibile rischio che la memoria vada perduta cercano di ovviare gli archivi, i musei, tutte quelle strutture e istituzioni che si occupano di raccogliere e preservare questi documenti. Indubbiamente, questo rappresenta anche un “raffreddamento” della testimonianza, in quanto nel racconto orale, nella testimonianza diretta, entra sempre anche quel vissuto che difficilmente può essere comunicato attraverso la scrittura o le immagini. Sicuramente il cinema, o la videoregistrazione, costituiscono un modo molto più efficace di restituire un’esperienza e questo rappresenta una chance importante per mantenere viva la memoria di un evento come l’Olocausto, di cui abbiamo comunque un’ampia documentazione e a cui il cinema ha dedicato grandi capolavori, come il documentario Shoah di Claude Lanzmann. 

Le immagini come possono intervenire in questo processo? 

L’immagine non sempre è sufficiente a darci di per sé l’idea di un evento. Ho usato la parola “idea”, un po’ platonica, non tanto per significare una realtà superiore, ma per riferirmi, di nuovo, al fatto che un’immagine ci dà sempre una visione parziale di un oggetto, mentre l’idea indica una totalità, qualcosa di più generale. Il racconto è indispensabile per render conto dell’immagine, perché ci dà qualcosa che, inevitabilmente, l’immagine non può darci. Ad esempio, con un racconto si possono spiegare le cause di un evento, il perché è accaduto, mentre l’immagine ci dice solo che è accaduto. Si può perciò restare attoniti di fronte a immagini molto forti come sono quelle che abbiamo della Shoah, ma quel che è più sconvolgente credo sia il racconto, la ricostruzione storica, che di esse e tramite esse si può e si deve fare. C’è un aspetto che riguarda la ricostruzione storica – non il semplice fatto che qualcosa sia accaduto, ma anche il perché – che per noi è fondamentale, e che ci serve per dare un senso, o non riuscire a dare un senso, a questi eventi. 

Come rispondono oggi i media alle questioni etiche che si sono aperte allora?

Ai problemi etici posti dall’alternativa tra il rendere tutto visibile oppure no, si aggiunge in effetti la possibile spettacolarizzazione dovuta all’eccesso di immagini che produce alla fine una sorta di banalizzazione. Oggi viviamo nella cosiddetta “società dello spettacolo”, in cui tutto pare che debba essere mostrato e, soprattutto, tutto sembra coincidere con quel che si mostra. L’alternativa tra visibile e invisibile, che è anche la condizione di ogni pensiero critico (nella misura in cui questo consiste nella capacità di “vedere” quel che è implicito o potenziale in ciò che si mostra, nel fattuale), sembra perciò venir meno. Tutto è “positivo”, nel senso che tutto è appiattito sull’attuale (e l’immagine, come diceva Freud, è sempre positiva, non essendo in grado di esprimere la negazione; ma questo è un problema che per certi versi conosceva già Platone). Paradossalmente, sembra che così l’immagine vada perdendo proprio la sua funzione “mediale”, cioè, in senso letterale, di tramite verso altro, verso una forma di pensiero per cui la mediazione è essenziale, ovvero il pensiero critico.

L'iperproduzione contemporanea di immagini rischia di generare una sorta di assuefazione anche all'orrore della guerra o alla morte? 

L’eccesso di immagini crea assuefazione quando diventa l’unico, o il fondamentale, modo di relazionarsi alla realtà, fino a sostituirsi ad essa. Ma l’immagine non è la realtà: ce la rappresenta, ma non la esaurisce. Voglio dire che in un certo modo le questioni etiche sulla spettacolarizzazione, sulla riduzione del mondo alle sue immagini, sono anche strettamente intrecciate con questioni di carattere gnoseologico: ovvero con la possibilità dell’immagine di rappresentare la realtà, che non può mai condurre a una totale coincidenza. Sarebbe come voler costruire una mappa totalmente fedele della realtà: cosa che, come mostra Borges nel suo breve racconto Del rigore della scienza è, in fin dei conti, impossibile e insensato. Quando si ha a che fare con l’irrappresentabile, l’unica soluzione è quella di accennarvi, di alludervi o di evocarlo. Wittgenstein diceva che di ciò di cui non si può parlare occorre tacere: potremmo riformulare il suo detto, dandogli un senso etico piuttosto che conoscitivo, dicendo che ciò che non può essere rappresentato (per pudore, vergogna, o rispetto), può essere evocato. Una scelta che fa, ad esempio, László Nemes in Il figlio di Saul.

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