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Netanyahu, i Paesi che hanno firmato lo Statuto di Roma sono obbligati al suo arresto

Edoardo Greppi, professore di Diritto internazionale, fa chiarezza sulle conseguenze del provvedimento emesso dalla Corte dell'Aja
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Benjamin Netanyahu

Lo scorso 21 novembre la Corte Penale Internazionale (CPI) ha ratificato i mandati di arresto contro il Primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, contro il suo ex Ministro della Difesa, Yoav Gallant, e contro Mohammed Deif, capo militare di Hamas. 

La decisione del Tribunale dell’Aja di spiccare il secondo mandato, richiesto lo scorso maggio dal Procuratore della Corte, coinvolgeva in origine anche altri due leader di Hamas, Yahya SinwarIsmail Haniyeh, ma – dopo l’accertata morte dei primi due – la decisione della Corte è stata circoscritta al solo Deif.

Il provvedimento ha scatenato la dura risposta di Israele che lo ha definito antisemita e ha pubblicato una nota ufficiale in cui rifiuta la legittimità degli ordini di arresto. Tel Aviv è subito ricorsa in appello. Un atto accolto di diritto dal Tribunale che ha sottolineato la necessità di un’inchiesta seria e approfondita da parte di Israele per poter prendere in considerazione la revoca dei mandati. 

Abbiamo provato a entrare nel merito giuridico della questione con Edoardo Greppi, professore di Diritto internazionale all’Università di Torino.

Professore, ci spiega quali sono esattamente i crimini contestati a Netanyahu e Gallant?

I crimini sono ascrivibili a due categorie, i crimini di guerra e i crimini contro l'umanità. Entrambi infatti – secondo quanto stabilito dallo Statuto di Roma sulla base della lunga esperienza giudiziaria internazionale, che va dai processi di Norimberga e Tokyo fino ai tribunali penali internazionali istituiti per l'ex Jugoslavia e il Ruanda – sono oggetto della giurisdizione della Corte Penale Internazionale.

In pratica ora cosa succede?

C’è una strana asimmetria a questo proposito. Come altri Stati molto importanti, Israele non ha ratificato lo Statuto di Roma, mentre la Palestina lo ha fatto. Questo significa che gli atti commessi sul territorio palestinese o commessi dai palestinesi anche su territori che non riconoscono l’autorità della Corte (come nel caso dei crimini del 7 ottobre in Israele) rientrano nella sua giurisdizione. I 125 Stati che hanno ratificato lo Statuto di Roma, hanno in quel momento contratto un generale obbligo di cooperazione, cosa che non vale per chi non lo ha sottoscritto. La Corte opera, infatti, secondo la stessa logica di una comunità internazionale – che è una società anorganica, cioè priva di organi sovraordinati agli Stati – che, non avendo proprie forze per l’attuazione coercitiva del diritto, si fonda sul presupposto che siano gli Stati stessi a cooperare per concretizzare l’arresto. In poche parole, il soggetto destinatario di un mandato come questo può rimanere nel suo paese o, se esce, può recarsi solo in un paese che non ha ratificato lo Statuto. Netanyahu e Gallant non potrebbero quindi andare nei 27 Sati membri dell’Unione Europea che hanno l’obbligo di procedere all’arresto ma potranno muoversi liberamente in America, in Russia, in Cina e anche in Iran.

Putin, per cui la CPI ha emesso un mandato d’arresto nel marzo 2023, si è recato in Mongolia, stato firmatario dello Statuto. Perché in quel caso non è stato arrestato?

Questo è un caso in cui la politica prevale sul diritto. L’arresto – in questo caso il mancato arresto – è stato un atto politico della Mongolia che ha stretti rapporti e interessi con la Russia. La Mongolia ha giustificato la propria condotta alla luce delle immunità, ma la Corte ha rigettato tale ricostruzione con una decisione del 24 ottobre scorso.

E la Corte?

Non ha potuto e non può far nulla perché dovrebbe essere l'Assemblea degli Stati Parte a prendere posizione. Il diritto è ovviamente condizionato dalla politica e lo è ovunque, in tutti gli Stati, non solo in Russia o in Mongolia. Faccio un esempio: in questi giorni si è sentito molto dire, anche da parte della nostra classe politica, circa la possibilità di applicare la regola generale dell’immunità per le alte cariche dello Stato. 

 L'articolo 27 dello Statuto di Roma stabilisce che si faccia eccezione alla regola dell’immunità per coloro che sono imputati per crimini internazionali quali i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità, il genocidio. 

Questa decisione secondo lei avrà un ruolo sulla fine del conflitto? 

La discussione sul tema è aperta. Per esempio c’è chi dice – e personalmente è un'opinione che rispetto – che l'errore di fondo dietro alla decisione di spiccare questi mandati consiste nell’aprire un capitolo giudiziario in una vicenda che è puramente politica, diplomatica e militare, con una guerra ancora in corso. 

In sostanza, il mandato di arresto può pregiudicare la possibilità di una soluzione diplomatica del conflitto? Semplificando: chi si mette a trattare con un criminale di guerra?

È una lettura possibile, lecita, ma d’altra parte allora c’è da chiedersi se bisogna rinunciare allo Statuto di Roma. Di nuovo, ecco che entra in gioco la politica. Chi si scaglia contro la Corte perché ha emesso questi mandati d'arresto però ha la memoria corta e non si ricorda che negli ultimi vent'anni uno dei maggiori addebiti alla Corte Penale Internazionale è stato l’incriminazione solamente di individui appartenenti a Stati africani o a Paesi in via di sviluppo. Questa volta che si è di fronte a una decisione diversa, ecco le critiche. Personalmente non ho una risposta netta. È comunque un terreno scivoloso. Che il mandato d’arresto possa essere un ostacolo a future trattative, è probabile. Ma più in generale, mi chiedo, dove e come potrebbero avvenire queste trattative?

Negli Stati Uniti per esempio?

Certo, potrebbe essere. Staremo a vedere. 

Cosa cambia ora politicamente per Netanyahu? 

Cambia poco. In questi mesi alcuni hanno scritto che Netanyahu ha lavorato sottotraccia per evitare questo mandato temendone chiaramente i pericoli. È abbastanza ovvio che il mandato ha un peso rilevante. Ma anche qui siamo nel territorio della politica e non del diritto. Inoltre, se i due capi di Hamas per i quali il Procuratore aveva chiesto il mandato insieme a Deif fossero ancora vivi, o se lo fosse Deif stesso (la cui morte non è certa), si sarebbe più cauti a leggere questa particolare azione come mossa da sentimenti antisemiti o fortemente anti-israeliani.  In altre parole, mi pare che il Procuratore e la Camera preliminare della Corte abbiano cercato di destinare i mandati a figure rispetto alle quali vi siano fondati motivi di ritenere che siano responsabili della commissione di crimini, sia nei confronti della popolazione israeliana sia di quella palestinese.

Il punto cruciale sembra ora vertere intorno alla questione dell’immunità.

Come ho detto, lo Statuto di Roma prevede un generale obbligo di cooperazione in capo agli Stati Parte. Tuttavia, nel caso in cui il mandato di arresto riguardi cittadini di uno Stato non-Parte, una clausola del trattato prevede che la Corte non possa procedere con una richiesta di cooperazione che costringerebbe lo Stato ricevente ad agire in modo incompatibile con gli obblighi in materia di immunità diplomatica. La questione è controversa, tanto che alcuni Stati europei hanno già dichiarato la loro disponibilità/intenzione di cooperare.

In linea generale, possiamo comunque constatare che dal processo di Norimberga ai processi dei tribunali penali internazionali per l’ex-Jugoslavia e il Ruanda per arrivare a quelli alla CPI si è ormai venuta a consolidare la tendenza a ritenere che casi di crimini internazionali non consentano agli accusati di invocare l’immunità. Arretrare da questo punto di arrivo costituirebbe un vulnus a uno dei fondamenti della giustizia internazionale: le gravi violazioni del diritto internazionale dei diritti umani e umanitario sono crimini che comportano la responsabilità penale internazionale di chi li commette.