Nuovo reato di femminicidio, le criticità del disegno di legge

Lo schema di legge sul femminicidio è stato salutato, il giorno prima dell’8 marzo, come “risultato epocale” dal Ministro della giustizia Nordio, come “novità dirompente” dalla Ministra Roccella; la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha affermato che si tratta di norme “molto importanti … che abbiamo fortemente voluto per dare una sferzata nella lotta a questa intollerabile piaga”. Anche questo disegno di legge si presta a due ordini di riflessione, come capita per ogni proposta di legge, che interessano le ragioni che giustificano l’intervento e le scelte per attuarlo.
È indubbio che da tempo sia sentita la “piaga” dei femminicidi e che da tempo siano state messe in atto strategie di contrasto su diversi versanti (introduzione di nuovi reati, inasprimento delle pene, norme processuali, norme di ordinamento penitenziario, istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta). Tuttavia, il femminicidio è solo l’apice finale di una violenza che si manifesta anche attraverso altri reati, che spesso ne costituiscono drammatici prodromi: violenza sessuale, maltrattamenti in famiglia, atti persecutori, revenge porn, lesioni personali, compreso lo sfregio permanente del volto. Il legislatore è già intervenuto, introducendo nuovi reati e inasprendo il trattamento sanzionatorio.
Queste strategie, però, si sono rilevate inefficaci, che già dovrebbe porre più di una domanda sull’efficacia dell’arma del diritto penale che, forse, non è più idonea per affrontare i problemi che indubbiamente ci sono.
Se si possono condividere le ragioni che giustificano l’intervento, lasciano perplesse le scelte tecniche che non vanno al di là, questo sia chiaro, del propagandistico inasprimento sanzionatorio. Si propone infatti di introdurre il nuovo reato di femminicidio, punendo con l’ergastolo “chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità”. A questa disposizione si affianca l’effetto domino di altri reati contro la persona aggravati, quando il fatto ha alla base un’analoga ragione di odio, di discriminazione o di intento repressivo (es. violenza sessuale, revenge porn, atti persecutori). Non è, dunque, solo l’omicidio a diventare reato caratterizzato sul piano del genere della vittima.
Se già le sanzioni vigenti sono elevatissime, che senso ha proporre l’introduzione della nuova fattispecie?
I fatti di femminicidio, come hanno evidenziato i lavori della Commissione parlamentare di inchiesta su questi reati, solitamente maturano entro rapporti familiari o di relazione affettiva e già a legislazione vigente tali omicidi sono puniti con l’ergastolo, se il fatto è commesso contro il coniuge, anche separato, contro l’altra parte di un’unione civile o contro persona stabilmente convivente con il colpevole o ad esso legata da relazione affettiva; la pena va da ventiquattro a trent’anni, invece, se il fatto è commesso contro il coniuge divorziato, l’altra parte di un’unione civile, ove cessata, la persona legata al colpevole da stabile convivenza o relazione affettiva, ove cessata. A questa disciplina si aggiunge una forte limitazione per il giudice nel riconoscere circostanze attenuanti.
Se già le sanzioni vigenti sono elevatissime, che senso ha proporre l’introduzione della nuova fattispecie? Sul piano della ricerca di una maggiore efficacia deterrente, direi nessuna.
A ciò si aggiungano due elementi critici.
Il primo è costituito dalla difficoltà di dare concretezza al contenuto della norma: cosa si intende per fatto commesso per reprimere la personalità della donna? Ed il riferimento generico alla finalità di reprimere diritti o libertà? A confronto il disegno di legge Zan, che prevedeva il riferimento alle ragioni di discriminazione fondate anche sul sesso e sul genere, brillava per chiarezza. Il diritto penale deve assicurare il principio di determinatezza della norma penale: è una garanzia costituzionale, riconosciuta anche dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, piaccia o non piaccia al decisore politico, che è vincolato al rispetto delle garanzie costituzionali e sovranazionali per effetto di investitura popolare.
Il secondo elemento critico è rappresentato dalla disparità di trattamento, perché è irragionevole che la fattispecie non trovi applicazione nel caso in cui sia un uomo ad essere ucciso quando gli elementi di discriminazione, di odio o di repressione risiedono nel fatto di essere maschio. Certo si potrà obiettare che questi casi non sono rinvenibili se guardiamo ai dati sulle vittime e sulle dinamiche degli omicidi. Tuttavia, gli elementi della disparità di trattamento e della inefficacia deterrente dell’inasprimento sanzionatorio hanno portato la maggior parte degli ordinamenti a non differenziare le fattispecie di omicidio in ragione del sesso della vittima.
La riflessione da fare è di tipo culturale: ossia quella di contrastare un maschilismo tossico, che non tollera la perdita di proprietà sul corpo femminile in un contesto sociale profondamente mutato rispetto ai rapporti patriarcali
Se vogliono essere assicurati interventi più efficaci sul piano delle indagini, si intervenga sulle norme processuali, come fa la proposta di legge, come il condivisibile potenziamento del ruolo della persona offesa, ma non introducendo fattispecie differenziate o aggravate dal genere femminile.
Se guardiamo ai Paesi che lo hanno introdotto (se non erro sono tutti del Centro e Sud America), allora forse la riflessione da fare è di tipo culturale: ossia quella di contrastare un maschilismo (direi machismo) tossico, che non tollera la perdita di proprietà sul corpo femminile in un contesto sociale profondamente mutato rispetto ai rapporti patriarcali. Allora, non basteranno nuove norme penali a contenere i femminicidi, se non saranno le famiglie, gli ambienti scolastici e universitari a fare la loro parte.