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Perché la Corte costituzionale ha bocciato il regionalismo differenziato

Annullando in parte la legge Calderoli, la Consulta ha richiamato all’unità della Repubblica e condannato gli abusi di autonomia: concessa solo se giustificata e nell’interesse nazionale. Ribadite unità e solidarietà come principi fondamentali
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Corte Costituzionale

«La scelta sulla ripartizione delle funzioni legislative e amministrative tra lo Stato e le regioni o la singola regione […] non può essere ricondotta ad una logica di potere con cui risolvere i conflitti tra diversi soggetti politici, né dipendere da valutazioni meramente politiche. Il principio di sussidiarietà richiede che la ripartizione delle funzioni, e quindi la differenziazione, non sia considerata ex parte principis, bensì ex parte populi. La ripartizione delle funzioni deve corrispondere al modo migliore per realizzare i principi costituzionali».

È questo uno dei passaggi maggiormente rilevanti della sentenza n. 192 del 2024, con cui la Corte costituzionale ha in parte annullato e in parte riletto in modo conforme alla Costituzione il contenuto essenziale della legge sul regionalismo differenziato (legge n. 86 del 2024, c.d. Calderoli).

È netta, nelle parole del Giudice delle leggi, la critica rivolta a chi ha ritenuto di svilire il regionalismo, da questione istituzionale d’interesse generale, a strumento di lotta politica contingente. E altrettanto netta è la condanna di chi s’è fatto portatore dell’idea – inconcepibile in un ordinamento che proclama l’unità e l’indivisibilità della Repubblica quale suo principio fondamentale – che «regionale è, sempre e comunque, meglio di statale». L’autonomia è senz’altro anch’essa un principio costituzionale fondamentale, ma a condizione che sia posta al servizio dell’interesse generale, non di una porzione soltanto del popolo italiano («non [sono] in alcun modo configurabili dei “popoli regionali”», dice ancora la Corte), né, tanto meno, di chi ha precisi interessi di parte avendo responsabilità di governo a livello nazionale o locale.

Si spiega così la cancellazione della tesi – alla base delle richieste provenienti da Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte e Liguria – che, in maniera interessata, aveva confuso la facoltà assegnata alle regioni dall’art. 116, co. 3, Cost. (riformato nel 2001) di ottenere «nuove forme e condizioni particolari di autonomia» in alcune materie con l’inesistente diritto di impossessarsi del complesso di tali materie nella loro interezza. Ricollocando al centro della riflessione i principi costituzionali di unità e indivisibilità della Repubblica, solidarietà, uguaglianza e sussidiarietà (che – si tende troppo spesso a dimenticarlo – opera, a seconda dei casi, non solo verso il basso, a beneficio delle regioni e degli enti locali, ma anche verso l’alto, a beneficio dello Stato), la Corte costituzionale fa definitivamente piazza pulita di tale pericolosa interpretazione della Costituzione.

In esito alla pronuncia della Consulta, ciascuna regione potrà ora domandare poche e circoscritte competenze – con l’esclusione, di fatto, di richieste in materia di commercio con l’estero, tutela dell’ambiente, energia, reti e infrastrutture dei trasporti, professioni, comunicazioni, norme generali sull’istruzione – solo qualora (1) non sia una regione a Statuto speciale (cui la legge Calderoli aveva assurdamente esteso la facoltà di differenziazione, non facendosi scrupolo di travolgere persino il dato letterale della disposizione costituzionale) e dimostri (2) di avere un’esigenza peculiare non affrontabile attraverso le ordinarie competenze (se l’esigenza è generale – come, per esempio, la carenza di personale amministrativo, la lentezza di procedure autorizzative statali o la migliore conoscenza del proprio territorio – la soluzione deve anch’essa essere generale) e (3) di poter far fronte a quell’esigenza solo attraverso la particolare competenza richiesta. Alle ulteriori stringenti condizioni (4) che sia il Parlamento (e non il Governo) a decidere sull’attribuzione delle competenze alle regioni, avendo il potere di modificare l’intesa, (5) che, se una competenza coinvolge diritti costituzionali, siano prima definiti dal Parlamento (e non dal Governo) i livelli essenziali delle prestazioni da garantire uniformemente sul territorio nazionale, (6) che l’ammontare delle risorse necessarie a esercitare le nuove competenze sia determinata in base ai costi standard (anziché alla spesa storica), (7) che l’assegnazione di tali risorse alla regione non ostacoli il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, ai quali tutte le regioni sono sempre tenute a contribuire, e, infine, (8) che il loro impiego risulti economicamente efficiente.

Nonostante i maldestri tentativi di minimizzazione, difficile immaginare una sconfessione più radicale del fanatismo che ha sinora animato i fautori del regionalismo differenziato.

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