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Peste suina, il "salto all'uomo" è altamente improbabile

Seppur in biologia non si possa "mai dire mai" per gli esperti è inverosimile che il virus possa adattarsi all'essere umano. Ma finora la gestione dell'epidemia in Italia è stata molto lacunosa, la politica ora ascolti la scienza
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  • Salute
  • Natura
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3 min
allevamento suini

Da ormai quasi tre anni la peste suina africana (PSA) – in particolare il genotipo 2 che è responsabile dell’epidemia che si è diffusa in Europa, Asia e Caraibi – ha fatto il suo ingresso in Italia, interessando in un primo momento i cinghiali e poi diffondendosi negli allevamenti di maiali domestici.

Molto, da allora, abbiamo sentito sulle azioni da intraprendere per risolvere questo problema, ma ad oggi i dati chiariscono che siamo ancora molto lontani dalla risoluzione di questa malattia, rilevata – solo nel nostro Paese – in 9 regioni su 20 (Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana, Lazio, Campagna, Calabria e Sardegna).

Forti o forse illuse dalle esperienze dei colleghi cechi e belgi, che erano riusciti a debellare il virus sul loro territorio, le nostre autorità – colte alla sprovvista – hanno ritenuto di poter “copiare” le esperienze altrui senza rendersi conto delle differenze con la nostra realtà. Questo ha comportato l’adozione di misure che non si sono mostrate efficaci e hanno permesso l’espansione e diffusione del virus. 

Le autorità sanitarie avrebbero potuto anche far tesoro degli strumenti e delle indicazioni proposte da Enetwil, il consorzio europeo di enti di ricerca ora coordinato dalla nostra Università, che, su mandato dell’European Food Safety Agency (EFSA), ha proposto soluzioni per creare modelli di distribuzione delle popolazioni di cinghiali, stimarne la densità con l’utilizzo di fototrappole e individuarne, con un'app, le carcasse. Strumenti nati proprio dalla necessità di raccogliere dati oggettivi senza i quali si rischia di procedere per tentativi e senza metodo scientifico non si può avere contezza dell’efficacia delle azioni adottate. 

La comunità scientifica ha da tempo compreso quanto la “dimensione umana” sia fondamentale nella gestione delle epidemie. Quanto accaduto con la PSA testimonia, invece, come l’unione di hard e soft sciences sia un processo non ancora completamente compreso dai decisori. Si sono, infatti, susseguite azioni controproducenti. Recinzioni chilometriche, uso di droni, impegno delle forze armate, abbattimenti dei cinghiali consentiti anche alla popolazione, hanno portato pochi risultati con conseguenti costi per il sistema produttivo e pesanti ripercussioni sull’economia non solo di settore. Rispetto ad altri Paesi europei non abbiamo quindi sicuramente brillato.

Le misure sanitarie imposte hanno, inoltre, impedito e limitato pesantemente tutte quelle forme diverse, più naturali e biologiche, dagli allevamenti intensivi. Una direzione contraria ai principi di ecosostenibilità e di rinascita del mondo rurale che tanti indicano essere la strada da adottare. 

Un altro punto rilevante è quanto sia mancata anche una strategia di comunicazione, perché se è vero che il virus colpisce solo i suini, domestici o selvatici che siano, è innegabile come le azioni umane siano il veicolo tra le popolazioni (animali) ospiti. 

La PSA è un paradigma, uno dei tanti, della nostra incapacità di prevedere, di prepararsi e di gestire i problemi che il mondo ci presenta. 

Recentemente, infine, si è diffusa la notizia che il virus della PSA possa mutare e passare all’uomo, come se, per l’uomo, non bastasse già l’ingente danno economico. In biologia non bisogna mai dire mai, poche cose sono impossibili, molte sono improbabili. Sulla probabilità che il virus della PSA possa adattarsi all’uomo, i commenti degli esperti vanno tutti in un’unica direzione ovvero che è altamente improbabile. 

Le zoonosi, le malattie degli animali trasmissibili all’uomo, sono infatti un problema emergente e concreto e ci sono ormai decine di esempi che si riferiscono non solo ad aree remote del mondo, ma anche a territori a noi più vicini. Molte di queste, due terzi almeno, derivano dalla fauna selvatica. Anche in questo caso è grazie al lavoro dei ricercatori che vengono identificate e studiate per poter poi adottare misure che permettano di contrastarle e diminuire così i rischi eventuali per la popolazione. 

Come scienziato coltivo un sogno, ovvero che chi si è assunto la responsabilità di gestire la cosa pubblica non rifaccia gli errori del passato e ascolti con attenzione e fiducia chi fa “scienza”.