Stabilizzazione e pluralità, come cambia l'immigrazione nella città metropolitana di Torino
- Società
Negli ultimi vent’anni il territorio torinese si è trasformato sotto il profilo economico, culturale e, soprattutto, demografico-sociale. L’immigrazione si può annoverare come uno dei più rilevanti fattori di cambiamento con cui attori pubblici e privati, corpi intermedi e singoli cittadini si sono dovuti confrontare o, in alcune fasi, scontrare sul piano politico. Come pure su quello della coesione sociale, dell’accoglienza e della condivisione di risorse. Paure e fatiche, dalla crisi economica del 2008 alla pandemia del 2020, hanno contribuito a far emergere queste tensioni.
Tuttavia, nel tempo sono stati scritti capitoli importanti di collaborazione istituzionale e di valorizzazione del tessuto sociale del territorio, rendendolo famoso per la capacità di accogliere, seppure senza poter evitare pagine di sfruttamento e di discriminazione. Donne e uomini, bambini e famiglie, che negli anni hanno trasformato quartieri, innervato popolazione scolastica, talora "sfidato" servizi nel confronto con dinamiche culturali, siano esse linguistiche, relazionali, religiose. Il risultato è una realtà articolata, che, dal capoluogo all’area della città metropolitana, testimonia di numerosi percorsi di inserimento.
Uno sguardo d'insieme
Il quadro dell’immigrazione nel territorio della città metropolitana di Torino si compone di adulti e minori, uomini e donne, che rappresentano il 10% del totale dei residenti. Poco più di 200.000 persone, le cui biografie lavorative, scolastiche, della scena quotidiana connotano l’area subalpina come un territorio attraversato da due tratti chiave: stabilizzazione e pluralità.
Si tratta di una popolazione che si distribuisce nelle fasce di età attive in misura superiore alla popolazione italiana, a sottolineare come il presente e il futuro dei diversi ambienti della società sono chiamati a confrontarsi con la pluralità che flussi migratori e processi di ricongiungimento familiare hanno definito e irrobustito. Una pluralità che è anzitutto europea (55%) e poi definita da chi proviene da altri continenti. Essa può altresì essere meglio descritta come composta da cittadini dell’UE (45%), di altri paesi non UE, ma sempre europei (10%), e poi del resto del mondo (45%). Distinzioni e riaggregazioni necessarie, anche per sottolineare come ragionare di persone straniere significhi distinguere.
Tale attenzione è sempre più necessaria: occorre imparare a considerarla come un’attitudine indispensabile per descrivere e osservare le realtà in mutamento dei 315 comuni della città metropolitana torinese, che ha nella relazione con la diversità etnico-culturale-linguista-religiosa un elemento distintivo ormai inequivocabile. Nella maggior parte dei casi ciò si coglie ancora nei dati del capoluogo: crocevia di arrivi e partenze, testimone di primi approdi e ridefinizione di progetti migratori, di nuove pagine di storie personali e familiari.
La città di Torino, con 135.753 residenti non italiani, accoglie oltre la metà delle persone straniere della città metropolitana. In altri termini, si tratta del 15,8% sugli iscritti in anagrafe, distribuiti su un ventaglio articolato di collettività, sebbene le più significative numericamente sono le prime dieci: Romania, Marocco, Perù, Cina, Nigeria, Egitto, Albania, Filippine, Bangladesh e Iran. Anche nel contesto torinese consolidamento e eterogeneità delle presenze sono tratti caratteristici, che – pur con ancora qualche concentrazione sub-territoriale – diviene anno dopo anno un leit motiv di ogni circoscrizione.
L’ingresso nella comunità degli italiani è corroborato dai dati della Prefettura e della Questura, che sottolineano l’aumento negli anni delle istanze di cittadinanza (più per naturalizzazione che per matrimonio nell’ultimo anno) ricordando come i protagonisti delle migrazioni percorrano strade di inserimento sempre più robuste. Ciò avviene all’interno di un territorio che ha saputo nei decenni costruire e promuovere opportunità di accompagnamento, orientamento e riconoscimento delle trasformazioni che l’arrivo prima di adulti, poi di famiglie e minori hanno prodotto.
Le sfide
Le sfide da affrontare sono molte, in processi sociali che si confrontano con variabili umane eterogenee per provenienze, contesti culturali, caratteristiche socio-demografiche. Fra di esse, ne vanno menzionate almeno tre. Anzitutto quelle del controllo e della sicurezza, attività che seppure in una cornice di stabilizzazione del fenomeno migratorio restano importanti e rimandano ad uno scenario caratterizzato da numerosi strumenti di inclusione e da un tandem pubblico-privato che ha dimostrato spesso di saper fronteggiare situazioni critiche. Ciò consente di non considerarle un tratto allarmante, contrariamente a percezioni e immaginari mediatici, smentiti dai dati nei diversi anni.
Vi è poi la sfida dell’accoglienza connessa all’emergenza umanitaria (di cui una parte è ancora quella ucraina). Coinvolge per le attività di istruttoria e valutazione Questura e Prefettura, mentre in quelle della gestione quotidiana un ventaglio di soggetti istituzionali e del privato sociale, dedicati alla cura, assistenza e promozione di autonomia. Il tema è quello dei richiedenti asilo, dell’attività della Commissione Territoriale, del lavoro di mediatori culturali, operatori dei diversi centri di accoglienza, di funzionari, assistenti sociali, educatori. Questi soggetti quotidianamente contribuiscono a gestire fatiche di percorsi umani spesso traumatici, in cui l’incontro con la società ospitante può essere talora complesso. Il continuo e infaticabile lavoro di formazione, informazione, aggiornamento di tutti coloro che – a vario titolo – sono chiamati a operare nell’amministrazione e gestione dell’immigrazione è necessario. Da un lato occorre allenare lo sguardo a cogliere le potenzialità di persone formate, aperte all’apprendimento, disponibili ad essere parte costruens del territorio in cui vivono. D’altra parte, come ricordano i dati del Servizio Stranieri e dell’Ufficio minori del capoluogo, le situazioni di fragilità economica, socio-assistenziale, familiare vanno affrontate arricchendo le interpretazioni della realtà ed aggiornando gli interventi, anche tenendo conto delle mutate richieste sociali nel dopo-pandemia.
Allo stesso tempo è indispensabile un confronto con la cittadinanza tutta, che anno dopo anno apprende le regole del vivere in ambienti in cui il tratto della diversità è sempre più presente. Fino ad essere parte costituente come le seconde generazioni mostrano emblematicamente nelle loro storie di vita. Ed è questa la terza sfida, quella dei più giovani, spesso considerati problematici per la coesione sociale in alcuni quartieri o realtà. Il rischio colto dall’osservazione della giustizia minorile, attraverso le sue diverse articolazioni, è quello che smarrimenti identitari e timori di anomia diventino la cifra distintiva di una parte dei figli dell’immigrazione. Sforzi congiunti nel comprendere e/o prevenire situazioni di disagio sono allora ritenuti necessari in ogni storia di immigrazione, per evitare che minorenni e neo-maggiorenni si perdano nei meandri di strade che conducono verso la devianza. Si tratta di numeri piccoli e ben lontani dal rappresentare il tratto caratterizzante del gruppo delle seconde generazioni, ma non per questo meno importanti né da sottovalutare. Sono, anzi, campanelli d’allarme, utili per riflettere su come meglio comprendere malesseri e disagi.
La scuola
Tale comprensione, al di fuori delle famiglie, si costruisce nelle scuole, sin dalla prima infanzia per poi arrivare alle secondarie di secondo grado. Quello scolastico, infatti, si qualifica come un ambito d’eccellenza per cogliere le trasformazioni in atto nei contesti territoriali, sia per le dinamiche migratorie sia per quelle naturali più in generale.
Infatti, in un progressivo scenario da inverno demografico, si assiste alla riduzione degli allievi con cittadinanza italiana, a cui fa da contraltare la ripresa dei NAI (Neo-Arrivati in Italia) o nati all’estero. Il dato sui figli dell’immigrazione, sia pure in crescita di poche centinaia di unità rispetto allo scorso anno, testimonia di una tendenza nota fra gli addetti ai lavori, ma che fa fatica a scalzare consolidati adagi, ovvero ‘i processi di stabilizzazione sono accompagnati anche da una assimilazione del comportamento riproduttivo delle donne straniere a quelle native, in questo caso. Non stupirà nel prossimo futuro, quindi, una riduzione dei bambini di famiglie immigrate nati in Italia (e nel torinese).
Al di là dei numeri, a scuola si apprende a diventare cittadini e si gettano le basi per il passo seguente, sia nella formazione accademica sia nel mondo del lavoro, anche considerati in modo complementare. Le aule universitarie a Torino hanno nel tempo conosciuto una progressiva internazionalizzazione. All’interno di tale cornice si rintracciano i figli dell’immigrazione che ne attraversano i corsi di laurea ancora senza cittadinanza italiana, ma con un diploma ottenuto in Italia, frutto di percorsi scolastici del tutto o solo parzialmente italiani. A loro si affiancano quanti sono italiani di origine straniera, invisibili alle statistiche di ogni ente, ma sempre più preziosi per esemplificare come l’immigrazione non sia un fermo immagine o un momento della vita in cui si resta intrappolati, ma un percorso che conduce alla cittadinanza italiana. Un nuovo passaporto, scelto, va ribadito – perché non tutti potendo, decidono di chiederlo – che tuttavia non mette al riparo da processi di trattamento differenziale o di mancato accesso a opportunità e risorse. Su tali tematiche, che negli ambienti lavorativi continuano a trovare riscontro, dentro e fuori le università ci si forma sempre di più.
Il lavoro
Il mondo del lavoro presenta però due facce. Quella dell’imprenditoria, anzitutto, dove il trend continua ad evidenziare un contributo all’economia del territorio crescente, in grado di rappresentare un tratto ulteriore di stabilizzazione. A fronte di imprese a titolarità di persone nate all’estero che aumentano e di un certo dinamismo (sia pure sempre caratterizzato dalle piccole dimensioni aziendali), vi è poi l’altra faccia, quella del lavoro subordinato sembra ancora ancorata a dinamiche che faticano a valorizzare un capitale umano qualificato. Il fattore cruciale pare ancora la disponibilità a svolgere lavori caratterizzati dalle cosiddette 5 P: precari, poco pagati, penalizzati socialmente, pericolosi e pesanti.
Le assunzioni nel territorio metropolitano torinese rappresentano un quinto del totale, le cui caratteristiche però confermano – al di là di un mercato del lavoro debolmente dinamico – una relazione ‘povera’, con un alto numero di contratti a tempo determinato ed in settori a scarsa o privi di qualificazione. Caratteristiche che si accentuano nel caso della componente femminile e che, guardando al segmento under 30, interrogano su prospettive di valorizzazione di un capitale umano disponibile e formato.
In questa prospettiva, la riflessione sul gruppo più giovane non italiano rimette al centro la riflessione sui giovani tout court, anche dal punto di vista della tutela della salute, sul luogo di lavoro e, come ricordano i dati Inail, al di fuori di esso. Le determinanti della condizione di salute sono solo in parte connesse al lavoro che si svolge, come sottolinea il contributo della Sanità, invitando a riflettere su come preservare il capitale di salute sin dalla prima infanzia e poi lungo l’arco della vita, invito prezioso e da non sottovalutare per ogni società.
* Le autrici hanno curato il Rapporto 2023 dell’Osservatorio Interistituzionale sulle persone straniere nella Città Metropolitana di Torino