Torino città autistica, per un futuro senza barriere mentali
- Società
Immaginiamo una città in grado di favorire modi alternativi di intendere la realtà urbana, in cui nessuno si senta inappropriato o fuori luogo, comprese le persone neurodivergenti. Non si tratta di un’utopia. Parliamo di qualcosa che non c’è, forse ancora lontana da venire, ma a cui dovremmo tendere perché avrebbe molto da offrire a chiunque.
La dimensione urbana, con le vetrine piene di luci e gli intensi rumori del traffico, è un accumularsi di stimoli sensoriali: un crescendo che parrebbe faticoso per tutte le persone, in particolare quelle con specificità sensoriali. L’obiettivo è ripensare gli spazi in termini di relazioni e liberarsi dalle atmosfere e dalle condizioni costruite sulla base di logiche neurotipiche, che marginalizzano altri modi di essere, di sentire e di rapportarsi alla città. D’altronde, anche il Marcovaldo di Italo Calvino aveva un occhio poco adatto alla vita urbana: “Cartelli, semafori, vetrine, insegne luminose, manifesti, per studiati che fossero a colpire l’attenzione, mai fermavano il suo sguardo che pareva scorrere sulle sabbie del deserto. Invece, una foglia che ingiallisse su un ramo, una piuma che si impigliasse ad una tegola, non gli sfuggivano mai”.
La città di Marcovaldo, seppur mai citata, è Torino. Ed è la protagonista del suo peregrinare urbano. Qui, vive e lavora Alberto Vanolo, docente di geografia economico-politica al Dipartimento di Culture, politica e società. Nel suo libro La città autistica (Einaudi, 2024) il camminare, anche il perdersi, è un atto politico, di affermazione. Partendo dalle pagine che ha scritto, con una prosa che mescola con abilità saggio e racconto, cerchiamo di capire – nella prospettiva delle scienze sociali – cosa significhi una città che orgogliosamente prova a definirsi tale. Provando a capire quali sono le problematiche che emergono nella relazione tra spazio e autismo (meglio autismi, sia per la soggettività dei casi sia “perché il nostro sguardo sull’autismo è in trasformazione, nel tempo e nello spazio”). Declinando, infine, la questione nella nostra realtà, Torino, indagando cosa già c’è per offrire uno spunto su cosa manca.
L'espressione "città autistica" chiama in causa un diritto, l’orgogliosa affermazione di una presenza e di una differenza
Vanolo ha scelto l’espressione “città autistica” e non altre espressioni mediate come “città per le persone autistiche”: “Mi piaceva – racconta – come suonava e l’ho fatto per sfidare le convenzioni che assegnano una valenza negativa alla parola. Chiama in causa un diritto alla città, l’orgogliosa affermazione di una presenza e di una differenza, il confronto tra modi radicalmente diversi di fare le cose o di vivere lo spazio urbano”. Ecco perché il progetto di città autistica acquisisce – oltre a quella culturale e sociale – una dimensione politica, con l’obiettivo di sollecitare il discorso pubblico e l’operato delle amministrazioni, affinché ci sia un coordinamento delle iniziative e una proposta politica “che più di inclusività parli di coesistenza tra soggetti differenti”. E consideri “lo spazio urbano non solamente in termini geometrici e materiali, ma anche – aggiunge Vanolo – come assemblaggio di relazioni, traiettorie, situazioni, contesti”.
Torino non è un caso a sé: esiste un attivismo diffuso, sono in campo diverse iniziative e progetti pubblici, ma sembra mancare un approccio sistemico, come peraltro accade in molte altre grandi città. “La maggior parte delle difficoltà delle famiglie che ho incontrato – spiega Alice Scavarda, sociologa della salute, che in Pinguini nel deserto (Il Mulino, 2021) ha analizzato le strategie di resistenza allo stigma da parte di famiglie con figli autistici e con sindrome di Down – riguarda le attività del tempo libero e la possibilità di condurre una vita sociale su un piano di parità. I luoghi classici della socialità, quali musei, parchi, ristoranti, non favoriscono la fruizione da parte di tutti e tutte. Succede talvolta che le persone autistiche o neurodivergenti e le loro famiglie riducano la loro vita sociale in modo preventivo, perché la gestione di stimoli come l’eccesso di rumori o luci troppo forti può produrre sofferenza molto intensa, fino a scatenare sovraccarico sensoriale, meltdown o shutdown”.
Gli spazi di quiete sono utili a persone neurodivergenti come a chiunque voglia prendersi una pausa dall'iperstimolazione urbana
Una delle soluzioni è introdurre spazi di quiete nei luoghi pubblici: “Questi spazi – aggiunge Scavarda – possono essere utili per tutti, per una famiglia con un figlio o una figlia neurodivergente, per una madre che allatta un bambino o per una persona anziana affaticata e, in generale, per chi vuole prendersi una pausa dall’iperstimolazione urbana. Si evita la ghettizzazione. Le attività creative e sociali dovrebbero essere strutturate per rendere possibile la fruizione a chiunque, incluse le persone neurodivergenti”.
Abbiamo creato una mappa che, con tutti i limiti del caso, disegna una Torino città autistica con spazi di cura, associazioni ed enti del terzo settore, cooperative e imprese sociali, presidi sanitari, strutture sportive e ricreative, fondazioni e collettivi che si occupano di neurodiversità e coinvolgono persone neurodivergenti. Una mappa certo incompleta, ma che tratteggia l’esistente ed è uno spunto per ipotizzare un futuro possibile.
Tra le varie iniziative, ci sono cinema che prevedono proiezioni “autism friendly” e alcuni esercizi commerciali gestiti da persone autistiche. L’aeroporto di Caselle da qualche anno ha avviato il progetto “Autismo – In viaggio attraverso l'aeroporto” per facilitare l’accesso in aeroporto e il viaggio in aereo per le persone autistiche, e sarebbe possibile menzionare altre piccole e grandi iniziative.
Una città autistica si sviluppa, poi, prendendo in considerazione l’esigenza di limitare l’ammontare e l’intensità degli stimoli sensoriali nello spazio pubblico, a partire da quelli visuali, acustici e olfattivi. Promuove un’attitudine positiva di apertura verso la neurodiversità e incoraggia la trasformazione. L’università, a questo proposito, può essere un luogo di sperimentazione. “In un percorso che parta dalla scuola e prosegua a livello universitario, sperimentando percorsi diversi e alternativi alle convenzioni sociali. Per esempio, alcuni studenti e studentesse hanno condiviso le loro difficoltà nel rimanere a lungo seduti nella stessa posizione. Mettere in discussione simili convenzioni non richiede un grande sforzo. L’università è piena di menti atipiche e potrebbe diventare uno spazio aperto alla sperimentazione e alla neurodivergenza”, precisa Vanolo, che qui propone una mappa mentale della sua Torino autistica durante le passeggiate con il figlio.
“Quando si parla di accessibilità si pensa sempre all’abolizione di barriere architettoniche ma la neurovarietà riguarda altri tipi di barriere, spesso meno visibili e quindi più difficili da riconoscere e da superare. È necessario – evidenzia Scavarda – ripensare gli spazi, anche nelle università, e il modo di fruirli, riducendo, ad esempio, le luci al neon troppo forti, limitando i rumori di sottofondo, l’intrusione di rumori esterni e i colori troppo accessi, prevedendo più pause durante le attività e contesti adeguati, magari all’aria aperta, per riprendere fiato da ritmi di studio, di lavoro e di vita spesso incessanti. Questi semplici accorgimenti sarebbero di beneficio per tutti e tutte”. Nell’ultima edizione di Funds TOgether, l'iniziativa di crowdfunding di UniTo, il Social Interaction Lab ha lanciato il progetto Verso il Virtuale e Oltre: uno spazio sociale sicuro per l'autismo.
La sfida è radicale e il concetto di inclusività può essere limitante, per questo motivo Vanolo consiglia quello di “coesistenza fra diversi”. La neurodiversità ha sviluppato posizioni politiche e prospettive di analisi non così distanti da quelle di altri movimenti che hanno lottato per il proprio diritto alla differenza: “La strada da percorrere - conclude Vanolo - con riferimento alla neurodivergenza e la sua considerazione sociale è la stessa, e in questo senso è possibile immaginare punti di contatto fra l’approccio alla neurodivergenza e quello queer, ma siamo ancora molto distanti dalla meta”.
* Nel testo sono stati utilizzati i termini neurodivergenza e neurodiversità. Se autismo è un termine medico, strettamente collegato a una diagnosi, neurodivergenza è un termine politico e include tutte le persone che, a causa delle specificità della propria mente, condividono una condizione di stigmatizzazione, esclusione o marginalizzazione. Neurodiversità descrive e racchiude la varietà delle menti umane.