Addio a Vargas Llosa, laureato honoris causa di UniTo

La Facoltà di Lingue e Letterature Straniere approvò la proposta di conferire la Laurea honoris causa a Vargas Llosa nel 2009. Un anno e mezzo prima che gli fosse attribuito il Premio Nobel. Probabilmente la cerimonia che ha luogo oggi sarebbe potuta avvenire prima di quel prestigioso riconoscimento. Ma il Ministero dell’Istruzione ci fece aspettare per un bel po’ la sua approvazione, perché era impegnato a riformare l’Università. Cioè a peggiorarla. Dobbiamo riconoscere che c’è riuscito. Però a noi toccò aspettare per circa tre anni.
Ricordo questo dato “cronologico” per sottolineare il fatto che i docenti della Facoltà di Lingue non ebbero bisogno di aspettare il parere dell’Accademia di Svezia per riconoscere la grandezza dell’opera di Vargas Llosa. Così come qualche tempo prima non avevano avuto bisogno di tale parere per proporre il conferimento della Laurea honoris causa a Harold Pinter, che gli fu data nel 2002, tre anni prima dell’assegnazione del Nobel.
Sul valore letterario della produzione di Vargas Llosa, in particolare da parte mia, che ispanista non sono, non v’è necessità di insistere. Dal romanzo di esordio, La città e i cani, del 1963, sino a quello più recente, L’eroe discreto, uscito a distanza di mezzo secolo dal primo, Vargas Llosa ha continuato a incantare, a “ipnotizzare”, per dirla con Cortázar, milioni di lettori. In un suo articolo, Vargas Llosa accenna rapidamente ai libri che gli hanno cambiato la vita. A molti di quei suoi milioni di lettori è lui che ha cambiato la vita, o almeno ha cambiato il modo con cui guardavano alla vita, perché ha aperto loro gli occhi, ha mostrato con storie e personaggi magari lontanissimi dalla loro realtà qual è la dimensione vera del reale. Lui stesso, in occasione del conferimento del Premio Cervantes, nel 1994, ebbe a sottolineare come la finzione, “testimone e fonte di anticonformismo”, possa essere rivelatrice di verità. Nel suo caso è certamente così.
Vargas Llosa, oltre che nei sui romanzi, nei suoi saggi e nei suoi articoli è stato ed è tuttora un testimone lucido e penetrante del mondo in cui viviamo e della sua dimensione culturale. È sul suo contributo alla riflessione su cosa è la cultura, su quale, secondo lui, è lo spazio che ad essa concede il mondo moderno che desidero soffermarmi. È una riflessione che contiene un insegnamento quasi altrettanto prezioso di quello che i suoi romanzi ci hanno regalato.
La cultura, scrive Vargas Llosa in uno dei molti saggi e articoli raccolti nel volume La civiltà dello spettacolo, “è diventata un fantasma inafferrabile”. Ciò è dipeso dal fatto di ignorare che se è vero che tutte le culture meritano rispetto, non è vero invece che tutte, per il semplice fatto di esistere, si equivalgono. Ma ancor più è dipeso dal fatto che, grazie a un’ambigua “rivoluzione semantica”, nell’idea di cultura è stata inclusa quella di incultura, “mascherata dietro il nome di cultura popolare”. Quando ciò si traduce nella teoria della letteratura di Bachtin, ovviamente, non c’è nulla da eccepire. Credo invece di sì, almeno in parte, quando una simile operazione la mette in atto il nostro Dario Fo. Ma qui siamo sempre in un ambito che una sua dignità culturale ce l’ha. Il disastro avviene quando, per estensione, il confine tra cultura e incultura svanisce; e qualunque manifestazione di credenze, atteggiamenti, luoghi comuni, viene accreditato come cultura. Vargas Llosa cita con disprezzo espressioni che continuamente troviamo nei giornali e ascoltiamo nei dibattiti, quali “la cultura della pedofilia” o “la cultura punk”. Cosa dovremmo dire noi, qui in Italia, dove ci tocca sentir parlare di “cultura mafiosa”?
Citando Eliot, là dove il poeta americano dice che “la cultura è ciò che rende la vita degna di essere vissuta”, Vargas Llosa ci ricorda che la cultura era una bussola, “una guida che permetteva agli esseri umani di orientarsi nel marasma intricato delle conoscenze senza perdere la direzione”. Era non solo ciò che ci consentiva di distinguere ciò che è bello nell’arte e ciò che non lo è; era soprattutto ciò che serviva a stabilire “gerarchie e priorità nel campo del sapere e dei valori etici”. Era ciò che ci aiutava a dare una risposta alle domande che l’uomo (che l’uomo degno di questo nome) non poteva e non può non porsi: sul significato della nostra esistenza su questa terra, sul significato di parole come spirito, solidarietà, amore, bellezza, su come le risposte che ci diamo debbano informare il nostro agire.
Non è più così. C’è stato, dice Vargas Llosa, una sorta di degrado che ha disarmato la cultura dal punto di vista morale e politico; e questo spiega almeno in parte perché alcuni “mostri” che credevamo estinti, il nazionalismo più estremo e il razzismo, siano risuscitati, minacciando nuovamente i valori e i principi democratici dell’Occidente (questo lo ha scritto molto prima delle recenti elezioni europee). E in un ambito meno cruciale, ma che per noi intellettuali non può non avere decisiva importanza, il degrado del valore della cultura fa sì che “le arti e le lettere …. rischino di diventare poco più che forme secondarie di intrattenimento”.
Cosa è possibile fare di fronte a questo “degrado”? Cosa possono fare gli artisti, tocca agli artisti deciderlo. Per esempio, possono scrivere un libro come L’eroe discreto. E si badi, mentre la letteratura a molti sembra ormai una cosa superflua, un intrattenimento insignificante (la letteratura è diventata light, dice Vargas Llosa), nei Paesi dove la libertà è limitata o inesistente, dove ogni giorno i diritti umani vengono calpestati, la letteratura è invece considerata pericolosa, capace di diffondere idee sovversive e germi micidiali, come ad esempio il germe del diritto di parola e di opinione. In quei Paesi sventurati, la letteratura, dice Llosa, non è affatto una cosa priva di importanza, visto che “i despoti, i tiranni, i fanatici la temono … e imbavagliano o eliminano gli autori”.
Per questa ragione, nel capitolo finale della Civiltà dello spettacolo, egli dichiara di fare suo l’appello dello scrittore nigeriano Wole Soyinka (il Nobel per la letteratura a cui la Facoltà di Lingue diede in quest’Aula Magna la Laurea honoris causa): un appello affinché i governi dell’Occidente applichino sanzioni economiche e diplomatiche ai governi tirannici, “invece di proteggerli o di guardare dall’altra parte”. Come ad esempio fece, tra gli altri, il governo italiano quando il regime nigeriano fece impiccare lo scrittore Ken Saro-Wiwa (ma possiamo capirlo il nostro governo di allora: in quella parte della Nigeria dove lo scrittore promuoveva la protesta della popolazione locale, avvelenata dai rifiuti tossici dell’industria petrolifera, c’è per l’appunto il petrolio – e c’è l’ENI).
Questo possono fare gli scrittori. Testimoniare con la loro opera, tanto nei Paesi dittatoriali (addirittura a rischio della vita) quanto nei nostri Paesi più o meno democratici, la necessità di difendere la dignità dell’uomo. E con la loro opera, al tempo stesso, indagare le ragioni, le contraddizioni, le illusioni, le debolezze dell’animo umano (non si tratta di invocare una “letteratura dell’impegno”: già è impegno sufficiente cercare di scoprire la verità su ciò che siamo). Questo possono fare gli scrittori. E per contrastare il degrado, cosa possono fare gli studiosi, i critici letterari in particolare?
La letteratura light, spiega Vargas Llosa, “dà al lettore la confortevole impressione di essere colto, moderno, di essere all’avanguardia con uno sforzo intellettuale minimo”. E la sua promozione passa attraverso il fatto che colà dove si promuove, la televisione innanzitutto, lo spazio dedicato alla cultura sia in larga parte occupato dalla cucina e dalla moda; e che i libri debbano il loro successo ai programmi televisivi alla Oprah Winfrey. In modo impercettibile la critica letteraria è quasi del tutto scomparsa e il vuoto che ha lasciato è stato occupato dalla pubblicità, che, dice Llosa, “è diventata non solo una parte costitutiva della vita culturale, ma il suo vettore determinante, esercitando un magistero decisivo” su gusti, immaginazione, costumi. (A questo proposito mi permetto di ricordare la massima del regista Jean-Luc Godard: la pubblicità è la forma che il fascismo ha assunto nella seconda metà del Novecento). Le cose stanno così. Inutile piangersi addosso.
Ma proprio per questo dalle pagine del saggio di Vargas Llosa emerge implicitamente un forte incitamento al fare, al contrastare il degrado. Il compito del critico letterario è ancora più indispensabile di quanto non fosse in passato; ma guai a chiudersi nelle nicchie accademiche. Llosa ricorda un grandissimo critico americano, Edmund Wilson, che, “senza mai venire meno al suo rigore e alla sua audacia intellettuale”, seppe rivolgersi al grande pubblico scrivendo per giornali e riviste. Questo fatto lo costrinse ad essere sempre responsabile e chiaro al momento di scrivere. Responsabilità e chiarezza, prosegue Vargas Llosa, “procedono di pari passo con una certa concezione della critica letteraria, con la convinzione che l’ambito letterario abbracci l’intera esperienza umana, … e che per questo motivo [la letteratura] dovrebbe essere patrimonio di tutti”. Per chi condivide tale convinzione, in tempi completamente mutati e in presenza di mezzi del tutto nuovi (e spesso incontrollabili e inaffidabili, come la “Rete” e i suoi corollari), la critica letteraria ha più che mai ragion d’essere, per non lasciare tutto lo spazio alla pubblicità, agli imbonitori e agli istrioni. Per poter dire ai lettori, con quella poca autorevolezza che ancora può conquistarsi (non è facile: “nella civiltà dello spettacolo, dice Vargas Llosa, l’attore comico è sovrano”), per poter dire ai lettori che ci sono libri che vale la pena di leggere, che il lavoro di quegli scrittori che ci “rivelano la verità”, sul mondo che ci circonda, su noi stessi, sul nostro destino di uomini, ci aiuta a salvarci dalla barbarie. Un lavoro che sa illuminare gli angoli più nascosti del nostro animo; e che ha anche la capacità di farci comprendere (voglio concludere citando ancora una volta le parole di Llosa) “che la libertà non è un dono del cielo ma una scelta”, che essa è “un bene prezioso, ma non è garantita a nessun paese e a nessuna persona che non sappia farsene carico, esercitarla e difenderla”.