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Perché chi controlla la Siria controlla anche il Medio Oriente

Lo storico Lorenzo Kamel analizza la situazione di un paese disastrato, dalla caduta di Assad alla questione umanitaria, dalle incertezze sul futuro al ruolo delle potenze straniere
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scena di guerra in Siria

La Siria è tornata, dopo una lunga assenza, sulle prime pagine dei nostri giornali. Un paese distrutto, senza più il suo ditattore ma con molti interrogativi sul proprio futuro. Con il professor Lorenzo Kamel, storico del Dipartimento di Studi storici, proviamo a sciogliere i nodi della questione. 

Dopo 54 anni di regime Assad e 13 anni di guerra civile, un repentino cambio di potere. Cosa sta succedendo in Siria?

Il 90 percento dei siriani vive sotto il livello di povertà e quasi metà di essi ha meno di 18 anni. Premesso ciò – e dunque una volta appurato che quanto sta avvenendo è prima di tutto una questione che riguarda la vita di milioni di esseri umani e, solo in seconda battuta, un tema di natura geopolitica – vorrei ricordare le parole di Patrick Seale, celebre giornalista britannico, il quale era solito sostenere che chi controlla la Siria controlla anche il Medio Oriente e può ambire a isolare i propri nemici. Questo lo sa bene il presidente turco Erdoğan, il quale ambisce a stabilizzare la propria occupazione del nord della Siria e a rimpatriare larga parte di quei tre milioni di profughi siriani presenti in Turchia. Del fatto che chi controlla la Siria controlla il Medio Oriente è cosciente anche la Russia, – che fino a pochi giorni fa considerava le sue basi militari in Siria, a Latakia e Tartus, come due asset imprescindibili – così come l’Iran e la Cina: parliamo di tre paesi che da tempo sono impegnati a scardinare l’ordine imposto da Washington sulla regione – ma anche in altre parti del mondo – e a sostituirsi ad esso. Delle parole di Seale sono consapevoli anche gli Stati Uniti stessi, che, oltre a supportare i curdi nella regione autonoma del Rojava, continuano a controllare il petrolio presente nei giacimenti dislocati nel nord-est della Siria. Ne hanno altresì contezza le autorità israeliane, che mirano in primo luogo a soffocare le linee di rifornimento che dall’Iran, passando per la Siria, raggiungono Hezbollah, nonché a occupare il sud della Siria per creare ciò che definiscono “una zona cuscinetto in chiave antijihadista”. 

Com’è possibile sintetizzare il ruolo delle potenze esterne?  

Nel 2018 ho pubblicato un lavoro sulla Siria dal quale emerse che la Russia ha concesso lo status di rifugiato a un solo cittadino siriano nel periodo compreso tra il 2011 e il 2018. Stando a dati del Dipartimento di Stato statunitense, Washington ha ammesso un totale di 11 rifugiati siriani in tutto il 2018. Sono solo due esempi per ricordare lo scollamento che esiste tra gli interessi geopolitici di molti attori esterni alla regione e la loro reale attenzione ai risvolti umani. Questa stessa questione può essere approcciata anche da un’ottica intraregionale. Il Libano ospita circa 1,5 milioni di profughi siriani, a fronte di una popolazione totale di 5,9 milioni di libanesi, mentre la Turchia, come accennavo prima, ne conta oltre tre milioni. Per converso, i paesi del Golfo Persico, nonostante l’enorme ricchezza che hanno accumulato negli ultimi decenni, si sono del tutto disinteressati dei risvolti umani ai quali accennavo. Basti qui menzionare che l’Arabia Saudita ospita 186 profughi siriani e il Qatar 30.

La caduta di Assad spezza l’asse sciita. È così?

Il cosiddetto “asse della resistenza” – guidato dall’Iran – ne esce certamente indebolito. La ragione per la quale ciò è avvenuto in questa specifica fase storica ha molto a che vedere con la situazione in Ucraina – che sta assorbendo larga parte delle risorse militari della Russia – e in Libano, dove Hezbollah risulta fortemente ridimensionato: a tali elementi vanno aggiunti, tra molto altro, i risvolti legati alle pluridecennali sanzioni economiche imposte alla Siria. Giova comunque ricordare che per secoli l’Iraq ha rappresentato il principale argine all’influenza dell’Iran, o Persia, in Medio Oriente.  Gli attori che hanno portato al collasso dell’Iraq – e dunque permesso all’Iran di aumentare esponenzialmente la propria influenza nella regione – sono gli stessi che chiedono da anni un intervento deciso per limitare l’influenza di Teheran. Oscar Wilde era solito sostenere che la verità è raramente pura e mai semplice. Gli storici lo sanno molto bene e a volte risultano scomodi per questo.

Com’è stata accolta la caduta del regime?

La caduta di Assad è una splendida notizia attesa da molti anni. Conferme di ciò vengono dai milioni di siriani che hanno manifestato contro di lui nel 2011. Dalle migliaia di sfollati siriani che stanno tornando a casa. Dal numero enorme di siriani – compresi bambini e anziani – imprigionati, torturati, e ora liberati. Dal fatto che Hurriya e karama, “dignità” e “libertà”, le due parole simbolo della rivoluzione del 2011, sono tornate a risuonare nelle piazze. È significativo che la quasi totalità di quanti ancora oggi mostrano un qualche sostegno nei riguardi di Assad non vivono in Siria. Non conosco alcun siriano che abbia manifestato tristezza o disappunto per la defenestrazione di Assad.  

Va comunque chiarito che Abdel Fattah al-Sisi in Egitto e Mohammad bin Salman in Arabia Saudita – per limitarsi a due esempi tra molti altri – non erano migliori di quanto lo fosse al-Assad. Il massacro ordinato da al-Sisi a piazza Rabi’a nel luglio 2013 e la repressione saudita delle rivolte in Bahrain rappresentano in questo senso solo due esempi tra molti altri. A ciò aggiungiamo la presenza di almeno 65.000 prigionieri politici nell’Egitto dei nostri giorni, e il fatto che, per via dell’enorme numero di persone soggette a pene di morte e torture in Arabia Saudita, Amnesty International ha sottolineato che le autorità locali mostrano “un profondo disprezzo per la vita umana”. Come ai tempi della defenestrazione di Saddam Hussein in Iraq, è dunque lecito porsi delle domande sui motivi per i quali la Siria ha registrato in quest’ultima decade dinamiche sconosciute in altri paesi in cui le violazioni dei diritti umani e le repressioni di massa sono state la norma.

Che Paese è la Siria dopo una guerra così lunga? 

La risposta richiederebbe molto più spazio. La Siria è un Paese grande e assai diversificato. Hay’at Tahrir al-Sham (HTS), il gruppo guidato da al-Joulani, non è abbastanza forte per controllare tutta la Siria. Esiste il concreto rischio che l’ISIS sfrutti i vuoti di potere nell’est del Paese e si imponga, ad esempio, a Deir el-Zor e nella bādiyat al-Shām. 

Qual è la prima figura storica che le viene in mente quando si parla della storia moderna o contemporanea della Siria?

Sabat Islambouly, una curda di religione ebraica, la prima dottoressa ad essere abilitata all’esercizio della professione medica in Siria. Aleppo, per inciso, è stata la prima città del Medio Oriente a registrare la fondazione di una squadra femminile di calcio.

Qual è il “peso della storia” nelle attuali dinamiche in Medio Oriente?

H. Habīb Lotfallāh, nato nel 1882 al Cairo in una facoltosa famiglia siriana legata allo sceriffo hascemita della Mecca al-Husayn, notò che la creazione “nella nostra regione di una serie di piccoli regni [omogenei] inaugurerebbe in Oriente un sistema non dissimile da quello riscontrabile oggi, e ancor di più prima della guerra, nei Balcani”. Aggiunse inoltre che “la religione è per noi [siriani] un aspetto secondario. Non siamo divisi nei nostri interessi e ideali a causa della religione”. Tra tante altre possibili chiavi di lettura, il peso della storia lo vedo nella distanza siderale che passa tra la storia millenaria riflessa nelle sue parole e un passato recente che – a quanti non conoscono questi luoghi e le cicatrici che li sottendono – appare come un’immutabile normalità.