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Università Usa in fibrillazione, la stretta di Trump sull'autonomia accademica

Dalla Columbia ad Harvard cresce il timore che gli eventuali tagli possano limitare la libertà di ricerca. Marco Mariano, docente di Storia dell’America del Nord, analizza la situazione e i futuri scenari
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Università Usa e finanziamenti

Crescono le preoccupazioni nel mondo accademico statunitense dopo la decisione dell’amministrazione Trump di congelare fondi pubblici alle università. La Columbia, ad esempio, ha subito un ridimensionamento di finanziamenti pubblici pari a 400 milioni di dollari, per non aver fatto abbastanza per contenere l’antisemitismo nel campus. All’Università della Pennsylvania, come riportato dall’agenzia Associated Press, sono stati congelati 175 milioni di dollari di fondi federali perché, nel 2022, l’ateneo avrebbe consentito a una nuotatrice transgender di gareggiare nella squadra femminile di nuoto. Il timore – che riguarda anche l’Università di Harvard – è che i tagli possano influire sulla libertà di ricerca. Con Marco Mariano, docente di Storia dell’America del Nord al Dipartimento di Culture, Politica e Società, proviamo ad analizzare il clima si respira nelle accademie statunitensi e quali scenari si profilano. 

Che cosa sta succedendo nelle università degli Stati Uniti?

Un collega, che è stato di recente alla Columbia per un seminario, è rimasto molto colpito dalla situazione attuale e dal fatto che il campus sia sostanzialmente sotto controllo poliziesco, con un'atmosfera particolarmente insolita. In realtà, già nei mesi scorsi, prima dell'elezione di Donald Trump alla Presidenza, la situazione era tesa a causa delle proteste seguite all'intervento israeliano a Gaza. Naturalmente, le cose sono ulteriormente peggiorate e il clima si è inasprito nei mesi successivi, con le decisioni dell'amministrazione Trump nei confronti della Columbia. Il problema, però, è più generale: anche le università che non sono state prese di mira esplicitamente sono coinvolte. In molte istituzioni, ad esempio, si sta cercando di anticipare le possibili decisioni della Casa Bianca in materia di finanziamenti, in particolare per quanto riguarda le università pubbliche, che dipendono molto più della Columbia dai finanziamenti pubblici. Gli amministratori stanno già invitando informalmente i loro dipendenti a prevedere periodi di sottofinanziamento e altre difficoltà. La questione riguarda l'intero sistema universitario pubblico e privato statunitense.

Jeffrey Flier, l’ex preside della scuola di medicina di Harvard, ha parlato di una “minaccia esistenziale”. Quali sono le conseguenze della rimozione dei finanziamenti alle università?

Credo anch’io si tratti di una minaccia, in primo luogo per le università pubbliche, che hanno meno fondi a disposizione e una maggiore incidenza di fondi pubblici, statali o federali. Ma è un pericolo per tutti, perché anche le grandi università private, della Ivy League o meno, hanno costruito nel tempo la loro credibilità e attrattività grazie a consistenti finanziamenti pubblici, federali e no. Il problema, però, non riguarda solo i finanziamenti, ma anche l'autonomia della didattica e della ricerca. Se questa viene meno, la credibilità di quelle istituzioni subisce un duro colpo. Non a caso, la Casa Bianca monitora l'offerta didattica e la ricerca, in particolare gli studi sul Medio Oriente, un nervo scoperto su cui l'amministrazione Trump è particolarmente aggressiva, nel tentativo di limitare la libertà di ricerca e di insegnamento. Per queste istituzioni, che hanno costruito buona parte del loro prestigio e della loro attrattività proprio sull'intangibilità della libertà di ricerca e di insegnamento, un attacco di questo tipo è una minaccia che va ben oltre il calo dei fondi provenienti da Washington.

Le Università di Toronto, Losanna e persino Kiev hanno offerto ai ricercatori che si trovano in difficoltà negli Stati Uniti di studiare da loro. Le azioni di Trump possono andare a vantaggio degli atenei non americani?

Sono scettico. In linea teorica sì, e abbiamo visto alcuni casi significativi. Non vedo però realisticamente la possibilità di un flusso di studiosi che lascino le maggiori università statunitensi per rifugiarsi in Canada o in Europa, per una serie di motivi legati anche alla capacità attrattiva delle risorse materiali di molte università europee, che non è tale da esercitare una forza particolarmente convincente. E poi immagino che la maggior parte degli studiosi negli Stati Uniti abbia intenzione di opporsi alle intimidazioni e non lasciare il paese. La cosa che può realisticamente succedere, e in parte sta già succedendo, riguarda soprattutto i giovani studiosi a livello di dottorato provenienti da paesi o aree del mondo che sono diventati, soprattutto negli ultimi tempi, oggetto di una campagna di sospetto, sorveglianza e repressione che ha tratti di xenofobia abbastanza evidenti. Se pensiamo alla quantità di giovani di provenienza mediorientale vittime di arresti arbitrari e illegali, o agli studenti e giovani studiosi provenienti dall'Estremo Oriente, come la Cina, allora sì, si può prevedere una dispersione di giovani talenti che le università americane avevano attratto finora e che ora, a seguito di arresti ed espulsioni senza precedenti, potrebbero scegliere altre strade e altri luoghi.

Secondo lei quali saranno le reazioni degli Atenei ai provvedimenti del governo?

È difficile prevederlo ora. Il sistema universitario americano si trova di fronte allo stesso dilemma di altri pezzi dell'establishment e del mondo culturale, economico e finanziario statunitense, come le grandi corporations e gli studi legali. Si tratta di scegliere tra collaborazione e cedimento, nella speranza di calmare le acque e tornare al business as usual, oppure intransigenza e muro contro muro, con il rischio di inasprire ulteriormente la tensione. I segni che stiamo vedendo fanno propendere per la prima ipotesi, cioè che molti pezzi dell'élite culturale ed economica stiano cercando forme di dialogo per limitare i danni e sperare in un ritorno a un clima più consono agli Stati Uniti che abbiamo conosciuto prima di questa torsione autoritaria preoccupante.

Torniamo alle motivazioni che hanno spinto l'amministrazione Trump ad attuare questo tipo di politica.

Mi sembra interessante ragionare sulle motivazioni di questo scontro voluto dalla Casa Bianca, perché ci sono diverse cause che è importante sottolineare per capire cosa sta succedendo a livello generale. Intanto, c'è una resa dei conti dell'amministrazione Trump verso quelli che considera i suoi nemici, come i giudici e molti altri ambienti critici verso l'operato della sua precedente amministrazione. In questa resa dei conti, il sistema universitario è visto come un nemico da intimidire. In secondo luogo, c'è il tentativo di fare qualcosa di gradito alla base elettorale trumpiana, che ha una forte tradizione anti-intellettualista e populista. In terzo luogo, l'amministrazione Trump non si interessa al soft power, cioè alla capacità degli Stati Uniti di esercitare prestigio e influenza attraverso strumenti diversi dalla forza. Le università americane sono state a lungo un pezzo importante di questo soft power, per la loro capacità di attrarre talenti da tutto il mondo. Per l'attuale amministrazione, sacrificare il mondo universitario statunitense e il suo prestigio non è un problema. Bisogna vedere, però, se questo non porterà a effetti indesiderati e a un indebolimento del prestigio e dell'interesse nazionale statunitense.

Come diceva lei, è difficile prevederlo ora.

Sì, lo vedremo tra un po'. Tuttavia, è importante notare che si stanno già verificando numerosi casi di studiosi che evitano gli Stati Uniti, cancellando viaggi, partecipazioni a convegni e soggiorni di ricerca. Questo segnala un crescente allontanamento dalle istituzioni universitarie statunitensi, percepite con diffidenza da studiosi di altri paesi. Tale tendenza si inserisce in un quadro più ampio, confermato dai dati pubblicati sul calo del turismo verso gli Stati Uniti, attribuibile alla riluttanza di molti a recarsi nel paese e a sottoporsi a controlli considerati sgradevoli. Pertanto, più che un esodo di accademici americani verso Canada ed Europa, ciò che emerge è una diminuzione della capacità attrattiva delle istituzioni universitarie statunitensi nei confronti di studiosi internazionali.