Telmo Pievani: "Comunicare la scienza è un dovere civile"

Telmo Pievani, docente di filosofia delle Scienze Biologiche all’Università di Padova, biologo evoluzionista e noto divulgatore scientifico, ha inaugurato il 28 gennaio la seconda edizione del Master in Comunicazione della Scienza dell’Università di Torino, in dialogo con Silvia De Francia, direttrice del master. Ne abbiamo approfittato per fare con lui il punto sul ruolo e sulle sfide della comunicazione della scienza oggi.
Professore, partiamo proprio da questa inaugurazione: la comunicazione della scienza è una professione che si può insegnare?
Sì, assolutamente. Io mi sono formato con uno scienziato statunitense che si chiamava Stephen Jay Gould — un paleontologo e biologo evoluzionista purtroppo scomparso ormai da parecchi anni — che fu anche un grande divulgatore. Gould diceva sempre che comunicare la scienza è un mestiere che richiede tanto rigore quanto la scienza stessa. E aggiungeva che è anche un dovere: non un'opzione, ma un dovere civile. Questa idea, che condivido, ha molto influenzato il mio percorso professionale: sono convinto che noi scienziati, finanziati prevalentemente da fondi pubblici, dobbiamo restituire al pubblico quello che facciamo, e a volte scopriamo, nel nostro lavoro.
Ha introdotto il tema del rigore, centrale per chi deve spiegare ai non addetti ai lavori concetti scientifici complessi: come si può trovare l’equilibrio tra quel rigore — la precisione richiesta dalla scienza — e la necessità di farsi capire, che implica una certa dose di semplificazione?
La semplificazione è un'arma a doppio taglio: è utile ma appena è eccessiva diventa imprecisione. Un consiglio che darei agli studenti del master, aspiranti comunicatori scientifici, è quello di selezionare bene gli argomenti: piuttosto che essere imprecisi, è meglio non affrontare proprio un tema. Questo approccio permette anche di evitare un altro rischio che corre il divulgatore scientifico: quello di essere didascalico. Non bisogna mai sottovalutare i propri interlocutori, ma occorre anche saperli coinvolgere. Ci sono degli strumenti per farlo, come usare le storie, la tecniche della narrazione. A questo proposito, ci tengo a sottolineare che la scienza non va comunicata solo per i suoi prodotti: è molto più importante parlare dei processi, per esempio di come uno scienziato ha avuto un’idea, o di come ha fatto ad arrivare a una scoperta. Questo racconto è molto più accattivante per il pubblico, e permette allo stesso tempo di spiegare i contenuti.
Gli strumenti dello storytelling dunque sono efficaci anche nella comunicazione scientifica…
Certo, sono tecniche fondamentali. Io prediligo una modalità di comunicazione ibrida, in cui la scienza si mescola ad altri linguaggi, come la musica o il teatro, senza temere una certa dose di ironia. Mi viene in mente lo spettacolo Il maschio inutile, in cui racconto le dinamiche della riproduzione e la morfologia di maschi e femmine di varie specie con la Banda Osiris a fare da controcanto musicale e comico. Come quando parlo dei processi di estinzione nell’evoluzione e la Banda risponde intonando Uno su mille ce la fa. Se spiego un concetto scientifico e il pubblico lo sente ribadire con la musica, o con un video, si crea un effetto di sinergia che rafforza la trasmissione del contenuto, e rende gli spettatori molto più ricettivi.
Da Marco Paolini a Cristiano Godano, passando per Angela Baraldi e Gianni Maroccolo, sono molte le collaborazioni che lei ha all’attivo, così come la forme di “contaminazione” che ha sperimentato. I social, dove dove si stanno affermando anche numerosi influencer scientifici, sono tra i percorsi di contaminazione possibili?
Un punto per me è fondamentale: se fai comunicazione scientifica devi avere chiaro che stai comunicando qualcosa. Ad essere importante è la storia di scienza che si sta raccontando, non chi la racconta. Quindi l’approccio non deve essere troppo narcisistico. Chiedere i like, dipendere dai like anche professionalmente, dover fare marketing mentre si fa divulgazione… quella per me è una degenerazione. Il rigore di cui parlavamo per me sta proprio nella priorità che dò al contenuto che scelgo di raccontare. Solo dopo viene la persona che racconta, un semplice strumento attraverso il quale condividere una bella storia.
Oltre a quella del rigore, quali sono le sfide per un comunicatore della scienza oggi, in un’epoca in cui bisogna fare i conti con fake news e disinformazione diffusa, ma anche con l'estrema complessità delle tecnologie che regolano la vita quotidiana e incidono sempre più sulle nostre vite, ma restano incomprensibili per la grande maggioranza delle persone?
I social sono probabilmente la prima sfida. Sono fondamentali in tutti i progetti di comunicazione e nessun divulgatore scientifico può essere contrario al loro utilizzo. Personalmente non sono presente sulle piattaforme, ma lo sono tantissimi dei miei progetti, perché è quello l'ambiente in cui si informa, ormai, più del 40% delle persone, soprattutto i più giovani. Per me però è indispensabile che sia il comunicatore della scienza a dettare le regole su come usarli, anziché farsele dettare dalla logica degli algoritmi. So che non è facile, ma si può fare. A maggior ragione se quando si fa comunicazione sui social non si rappresenta solo se stessi, ma una testata giornalistica o un'istituzione pubblica, come un’università, che garantisce autorevolezza. Come una sorta di bollino di qualità.
Social a parte, il ruolo della comunicazione scienza oggi è difficilissimo perché dobbiamo dare notizie pessime, molto scomode, soprattutto sulla crisi ambientale e sul crollo della biodiversità, ma farlo in modo tale da non generare rassegnazione, sfiducia e disfattismo. Bisogna sempre mescolare emozioni positive ed emozioni negative, e questo è difficilissimo. In più, dobbiamo difenderci dai tanti che fanno invece negazionismo e diffondono fake news.
Le fake news si possono contrastare? Come?
Le fake news sono essenzialmente contenuti di due tipi: antiscientifici o pseudoscientifici. I primi negano apertamente le evidenze scientifiche, come le teorie dei terrappiattisti o dei negazionisti climatici; i secondi, costruiti in modo molto più sottile e intelligente, scimmiottano l’approccio della scienza. Contrastare le fake news è molto difficile, perché — come è ormai risaputo — affrontarle di petto non funziona, anzi rafforza la polarizzazione. Più che smentirle, è meglio “smontarle”, ovvero spiegarne la genesi e confrontarla con il metodo scientifico, offrendo così al pubblico tecniche per riconoscerle. E poi — e questo è un altro consiglio per gli studenti del master — bisogna tener presente che magari non si riesce a far cambiare idea a chi ha creato o diffuso la fake news, ma c’è un pubblico che assiste a questo dibattito, che possiamo influenzare. Rispetto alle fake news, la sfida è fare in modo che siano meno contagiose possibile.
Ultima domanda, inevitabile: di comunicazione della scienza si è cominciato a parlare molto a partire dalla pandemia. Cosa abbiamo imparato dal Covid?
Credo che in quel periodo siano stati fatti tanti errori. Si è visto chiaramente che tanti scienziati non avevano la minima idea di come funzionano i mezzi di comunicazione. Una mossa sbagliata è stata spesso quella di fare pubblicamente previsioni quando non era ancora il caso di farle, o dare certezze senza spiegare il grado di dubbio sempre presente. Un approccio sbagliato, per tornare su un punto che abbiamo già affrontato, è stato privilegiare la comunicazione dei risultati a scapito di quella del metodo, o dei processi che portano alle scoperte. O ancora - e secondo me è l’errore peggiore - impostare la comunicazione della scienza sull'autorità, con un approccio del tipo ‘adesso vi dico che le cose stanno così perché io sono un medico, uno scienziato’. Un modo di porsi che scatena istintivamente una risposta difensiva nel pubblico, e che quindi va sempre evitato. Come vede parecchi errori ma, come capita nella ricerca scientifica, sono proprio gli errori che ci permettono di migliorare.